Frederic Edwin Church - Jerusalem from the Mount of Olives. Gerusalemme ha grandi affinità con Samara, città mediorientale, crocevia di culture. Costruita in arenaria del colore della sabbia e del sale, luogo di santi e di martiri, di guerrieri e aguzzini.

Samara, Fiore del Deserto

Questo racconto fa parte delle Lettere di Martinius. Se non conosci la serie, comincia dal prologo.

Samara, 22 Giugno. A.D. 1800.

Martinius saluta i suoi Principi ed il suo Re.

Miei amati Farwic e Malwic,
Il vostro vecchio insegnante ha concluso oggi la prima delle visite pastorali affidategli. Confesso che l’animo con cui vi scrivo è alquanto migliore di quello con cui vi scrissi la mia precedente missiva.

Le vostre notizie, che ho con grande gioia ricevuto al mio arrivo in città, hanno non poco aiutato a rinfrancare il mio vecchio cuore. Gioisco con voi del buon proseguire dei vostri studi, così come dell’annunciarsi fruttuoso della campagna agricola di questo anno, e la mia anima trova serenità nell’immaginarvi, chiusi i libri sul far della sera, a visitare a cavallo le colline, che col proseguire dei giorni si tingono dell’oro del frumento maturo.

Devo ammettere che è una malinconia stranamente deliziosa, sapere che le vostre scorrerie non sono – almeno sinché sarò in viaggio – un problema mio. Approfittate di questa mia assenza, miei principi, per godere della vostra gioventù; riderò con voi se al mio ritorno sarete riusciti a far imbiancare i capelli del vecchio Briar ancor più di quanto non fossero già sbiaditi alla mia partenza.

Quanto a ciò che ho incontrato qui a Samara, posso dire che meriterebbe molte più parole di quante possa inserirne in una lettera. La Sacra Fiamma arde qui non meno che nella santa Lavinium, seppure con sapori e sfumature diverse.

Come sapete, oggi Samara è una città libera. Nessuno qui ha tuttavia dimenticato le torture e le persecuzioni subite sotto il giogo dell’Impero di Ishmael, il cui confine settentrionale – solo poche leghe più a sud – incombe ancora come una angosciante minaccia, solo scarsamente consolata dalla pace che porta il nome della città.

La guerra con gli Ismaeliti e la Pace di Samara, sette anni fa, posero fine alla persecuzione della nostra gente, ma non guarirono le ferite; forse, le peggiorarono. In questo fiore del deserto, ove si incontrano stirpi, arti ed architetture dell’oriente e dell’occidente, del settentrione e del meridione, sono pochi gli uomini che non hanno visto, nella loro vita, la terribile faccia del Male. Le storie di coloro che mi hanno accolto sono state spesso difficili da sopportare; taluni sono sopravvissuti ai loro figli, altri ai propri padri, martiri nelle maniere più disparate e grottesche, chi di fuoco, chi di acqua, chi di spada.

Sebbene la Pace abbia sancito una condivisione del governo della città fra le due religioni, la convivenza tra ardenti ed ismaeliti non è tutt’ora stabile. Il desiderio di vendetta per gli uni, ed il revanscismo per gli altri, covano inestinti fra la gente, e talvolta s’avvinghiano come serpenti furiosi. Anche in pace la città non è esente da delitti e crudeltà, che si consumano specialmente nei quartieri più poveri.

Questa non è purtroppo la fine delle pene dei samaritani. Per entrambe le parti, in effetti, la pace è stata più una necessità che una volontà. La guerra ha distrutto le arti ed i lavori, interrompendo le attività agricole e la pesca, gettando nel panico tanto le campagne quanto le coste. La carestia avrebbe reclamato sino all’ultima vita della regione, fosse la guerra durata un mese di più. La terra stessa sembra aver punito i samaritani della loro crudeltà reciproca, tanto che le campagne agricole hanno continuato ad essere disastrose persino negli anni che hanno seguito la pace. Ancora oggi, la povertà è visibile anche nelle case di coloro che dovrebbero essere i ricchi; i commercianti ed i possidenti.

Eppure, miei amati principi, in questo luogo di tormento ed in questa gente così legittimata a detestare la vita, ho trovato un amore che, pur essendo così orribilmente avvinghiato all’odio, fa sfigurare quello di qualsiasi altro luogo io abbia conosciuto.

La gente di Samara ha una devozione al nostro Signore che difficilmente trova pari in altri luoghi di Eidoron. Qui le icone dei santi sono più rare rispetto alle raffigurazioni della Sacra Fiamma, che adornano quasi tutte le case degli ardenti della città, con bassorilievi crudamente realizzati sull’arenaria. Le liturgie a cui ho partecipato hanno una atmosfera di adorazione più mistica e più autentica di quelle cui siamo abituati: è palpabile, nei fedeli di Samara, la ammirazione verso la pira; verso la Sofferenza, che qui la gente riconosce come propria sposa come lo fu per Colui che ci ha dato la Vita.

Gli uomini di Samara riconoscono, nel volto arso e annerito del nostro signore morente sulla pira, il volto straziato dei loro figli, dei loro padri, dei loro mariti. Nel dolore del fuoco hanno visto l’agonia della forca, della spada, della fame; ed hanno creduto.

Cari principi, questo non è facile da capire, e sopratutto da sentire, per coloro che sono abituati ad una vita di agi, protetta dal male e dalla discordia profonda, come lo siamo stati noi. Non è forse vero che molti dei paesi dell’Ovest, dalla Repubblica di Bastille sino ai salotti di Albion, brulicano di intellettuali intenti a smantellare la nostra Chiesa, proponendo questa verità al rovescio?

“Come può un Dio infinitamente benevolo, ed infinitamente potente al contempo” – dicono – “permettere che vi sia una simile quantità di male nel mondo? Certamente, un Dio così non può esistere.” Questo annunciano tronfiamente, sorseggiando vini costosi e saggiando formaggi prelibati: e la gente dei loro paesi, da loro credito. Ma non la gente di Samara, principi miei. Chi ha visto il male negli occhi, sa bene che il male non è il rovescio della nostra fede: ne è il cuore.

Quale conforto, quale significato, possono questi filosofi offrire ad un uomo spezzato? Essi dicono: “Nessuno può stare al capezzale di un bambino morente, e confessare che Dio è buono.” Ma io vi dico, miei principi, che neppure posseggono costoro l’audacia di annunciare alla madre del bambino che il suo figlio non è che un futile capriccio del cosmo; che il tormento del pargolo non è che la fine inconcludente di una vita priva di senso, e che essa dovrebbe essere anzi contenta che il caso stia levando al piccino questo inutile fastidio che è la vita.

Di fronte al Male, a questi uomini, così colmi di irriverente intelletto, non è aperta altra strada che quella che è aperta a tutti gli altri: il silenzio. Noi vediamo un bambino morente, e non possiamo che sprofondare nella costernazione. Vediamo un uomo perseguitato per la sua fede, vediamo il suo figlio portarne il corpo straziato dalle lance e dalle spade, e cosa ci è consentito, come uomini? Nulla possiamo fare più che condividerne la insensata sofferenza; nulla ci è consentito di più che maledire la nostra miserabile impotenza.

Certamente il nostro Dio non ha cancellato il male; e concederò ai filosofi di Bastille che ritengo anch’io grottescamente arroganti i teologi che pretendono di spiegare con fini ragionamenti e freddi tratti di logica il perché di questa Sua cosmica decisione.
Egli ci ha però dato, come è Suo costume anche in altri ambiti, una risposta che trascende di gran lunga il nostro dibattere e le nostre aspettative. Al nostro sentimento di impotenza di fronte agli uccisi ed ai derelitti; alla nostra costernazione ai piedi dei crocefissi, degli arsi, dei lapidati, di morti di lancia e di persecuzione; al dolore incolmabile di una vedova o di un orfano, Egli ha dato una risposta che supera ogni possibile elucubrazione di filosofo o teologo.

Il Creatore del cosmo; Signore della terra e della natura, potente più di ogni immaginazione, e capace di spazzare via un esercito con una singola parola: Egli si è umiliato nella forma umana, e non ha rifuggito il dolore. Invece fu picchiato ed insultato, ed accettò persino la sua stessa morte; ed una morte di rogo.

Così, miei cari, dovrete capire perché simili filosofie non possono attecchire sugli abitanti di Samara. Nel volto annerito dell’Arso, nel dolore estremo della pira, essi vedono il volto di Dio, ma altrettanto vedono il volto di coloro i quali hanno patito e sono morti, e persino il loro volto stesso; mentre con coraggio ardono anche essi, giorno dopo giorno, sposi della Sofferenza.

Nel dolore del Signore del Cosmo è glorificato il loro dolore; e così loro stessi si fregiano del loro tormento, e lo affrontano con coraggio e devozione, ben consci che questo dolore non è capriccio cosmico, non è scherzo del fato, ma è la loro corona, la loro gloria.

Ecco per voi un racconto simpatico, di come il vostro maestro si è imbarazzato. Giunto alla sede patriarcale di Samara, fui accolto da un derelitto; un uomo ben più magro di quanto si conviene, storpio ad una gamba, probabilmente per una passata malattia oppure per denutrizione. Una grezza benda nera copriva metà del suo viso, ed era monco di una mano; entrambi segni di torture subite durante la guerra.

Quando lo vidi, fui mosso a pietà, e pensai che il poveretto dovesse essere un protetto del patriarca, un servitore, raccolto più per compassione che per quanto potesse offrire col suo lavoro. Tanto ero impietosito dal suo stato, che non mi avvedetti del mio abbaglio nemmeno quando l’uomo si presentò con lo stesso nome di cui ero in cerca: Yussef. Così lo benedii, rassicurandolo che il Signore lo avrebbe compensato di tale gravame, quando sarebbe giunto alla Sua casa. Egli sembrò sorpreso, ma sorrise amichevolmente. Ed ecco, poiché era l’ora del rito serale, ci invitò ad accomodarci nella cappella del patriarcato; avremmo potuto iniziare il nostro lavoro dopo la celebrazione.

Così ci accomodammo nella cappella. Suonò una campana, e subito la piccola navata fu attraversata da quattro diaconi, guidati proprio da quel Yussef. Così capii il mio imbarazzante errore, ma non feci tempo a provarne vergogna che tale sentimento fu coperto da una potente ammirazione. L’uomo celebrò la memoria del sacrificio del nostro Signore, ed ecco che mentre alzava il braciere al cielo, sotto il bagliore rossastro della fiamma, mi parve quasi trasfigurarsi. Egli diventò d’un tratto imponente; la sua benda rifletteva la luce del fuoco come una corona regale; dove la sua mano, monca, avrebbe dovuto essere, sembrava quasi di intravedere lo scettro del comando.

Davvero quell’uomo, così gravato dal fato, parve in un istante divenire il più maestoso e terribile dei signori, vestito delle sue piaghe come di una porpora regale, adornato dalle sue ferite come di ori liturgici! Dopo la celebrazione, sentii il dovere di scusarmi. Ma il Patriarca Yussef semplicemente rise e mi abbracciò con più forza di quanta pensavo potesse averne il suo corpo segnato. E sono convinto che in tutto il mio viaggio, mai più riceverò una accoglienza simile a quanto mi ha offerto la povera regalità del Patriarca di Samara.

Cos’altro dirvi, miei principi?
Voi siete giovani, ed ancora liberi da compiti gravosi. Ma crescendo, studiando, allenandovi; state preparandovi all’arduo compito di condurre la nostra nazione: ecco, la vostra pira è già preparata per voi. Voi sapete che sarete immolati per la vostra patria e la vostra gente: accettate questo destino, e sarete grandi. Fatevi carico con gioia, fiducia e speranza delle sofferenze che il fato imporrà su di voi, e sarete Santi.

Io per me, continuerò il mio viaggio. A breve riprenderò il mare, e per mare rimarrò all’incirca una settimana, forse una dozzina di giorni, dovessimo essere costretti a riparare su qualche isola. Sosterò poi a Knossos al più una settimana, e poi partirò ancora, e dovrei raggiungere Illion sul termine di Luglio.

Lì rimarrò un po’ più a lungo, sfruttandolo come punto di riposo per visitare alcune città di Teokonos. Dovrei ripartire sull’inizio di Settembre.

Prego per la vostra fortezza di cuore; e per la pace di vostro padre Re Arwic.

Con amore profondo,

Martinius Wyss.


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