Questo racconto è a sé stante.
Non fa parte di altre serie, né dell’universo di Eidoron.
Buona lettura!
Saul aprì gli occhi quasi di scatto, rispondendo ad un impulso preciso nel suo cervello. La voce di Nia si fece strada nella sua mente, gentile e metodica. «Buongiorno, Saul. Sono le sette precise. Oggi hai tre appuntamenti. Il primo, in videoconferenza alle nove con il direttore regionale, il signor Moore. Poi riunione di ufficio alle undici. Alle tredici ho organizzato un pranzo di lavoro con dei potenziali clienti.», civettò Nia, proiettando dei nomi che Saul era troppo assonnato per leggere.
Lui si stiracchiò nel letto, cercando di trattenere il filo di un sogno appena dissolto. «Aggiorna eventuali cambiamenti in tempo reale. Grazie, Nia», rispose, senza bisogno di parlare.
Si alzò e attraversò il corridoio, dove le notifiche proiettate ai margini della sua visuale si rincorrevano l’una dietro l’altra: mail non lette, notizie del mattino, le quotazioni in crescita di alcune start-up.
Entrò in cucina e trovò Evelynn già seduta al tavolo. Aveva le mani avvolte attorno a una tazza di caffè, lo sguardo perso. Saul si versò del caffè anche per sé, inspirando l’aroma mentre nella sua mente Nia sciorinava i titoli di cronaca.
«Ciao, Saul…» salutò Evelynn, con tono distratto.
«Buongiorno Evelynn.» rispose lui, sedandosi a tavola.
Poche parole di routine, a rompere la monotonia del mattino. Dentro le loro teste, Nia suggeriva possibili argomenti di conversazione: le ultime notizie, i movimenti economici, gli ultimi casi su cui Evelynn aveva lavorato.
Fu lei a rompere il silenzio. «Ho fatto delle ricerche con Nia stanotte. Abbiamo valutato… alcune cose.» Parlava piano, come se cercasse di scegliere le parole con cura. «Pensavo fosse il momento di… chiedere un bambino. Le coppie con una stabilità e una posizione come la nostra sono incentivate, ed è qualcosa che sento… di desiderare.»
Saul si fermò con la tazzina a mezz’aria, sorpreso. Anche dopo tutti quegli anni vita assieme, il tema, nel loro rapporto, era nuovo. Dapprima non rispose. Dentro di lui, Nia si era già messa in moto, proponendogli dati statistici sulla stabilità delle famiglie in rispetto alla carriera dei cogniugi, elencando gli incentivi statali previsti per l’accoglienza di un bambino. «Un bambino?» mormorò, poi abbassò lo sguardo sul caffè. «Sicura che sia la scelta giusta? Abbiamo così tanti impegni. Tu al Ministero, con le tue… valutazioni, con lo stress che portano… Ed io con la azienda…»
Evelynn raddrizzò la schiena. «I parametri sono ottimali. Nia mi ha confermato che siamo in una ottima posizione: stabilità economica, stato di salute, età… va tutto bene.» Fece una pausa, come per soppesare la prossima frase. «E poi… vorrei avere qualcuno da far crescere. Non so spiegartelo.»
«Non so…» disse Saul, distogliendo lo sguardo dal tavolo. Avrebbe voluto aggiungere altro ma sentì la gola secca.
Evelynn cercò di addolcire la tensione, rigirando la tazza fra le mani. «Non voglio costringerti, Saul. Davvero non ci hai mai pensato?»
Lui esitò, poi vide lampeggiare un avviso nella sua visione periferica: era tardi. Si alzò di scatto, dirigendosi verso la porta. «Ne riparliamo, d’accordo? In fondo, non c’è fretta… no?» Provò un sorriso di circostanza, ma le labbra gli si incresparono appena.
Evelynn restò immobile, le dita ancora strette attorno alla tazza vuota. Nia già la preparava alla sua giornata lavorativa, proiettando nella sua testa ologrammi con tabelle e dati: vedeva i nomi dei pazienti che avrebbe dovuto valutare quel giorno, il carico di lavoro, gli orientamenti di valutazione sugli altri uffici… E in mezzo a quei pensieri, l’idea del bambino fu messa momentaneamente da parte.
«Certo…» rispose lei, a bassa voce.
Saul la guardò per un istante, in cerca di qualcosa da dire. Nulla gli venne in mente. Così uscì di casa con un rapido saluto, mentre nella testa l’agenda di Nia lo proiettava già sulle strade affollate, verso un’altra giornata di lavoro.
Saul salì in auto e poggiò le mani sul volante per abitudine, pur sapendo che il veicolo si sarebbe mosso da solo. Attraverso il parabrezza, la città appariva avvolta da un’alba gelida: un sole pallido, quasi senza calore, illuminava appena i contorni dei palazzi. Ai margini della sua visuale scorrevano gli aggiornamenti inviati da Nia: «Traffico scorrevole… Arrivo previsto per le 8:45».
Lui sospirò, ancora assorto nelle parole di Evelynn. Quella strana idea di un bambino, di un futuro con scadenze già programmate, gli aleggiava nella mente. Il tragitto cominciò in modo monotono: l’auto scivolava sui viali in un silenzio quasi irreale, come se la città non fosse ancora del tutto sveglia.
Giunto all’imbocco di una galleria, Saul sentì un tuffo al cuore. Sulla sinistra, oltre la spalla, intravide qualcosa che non si aspettava: non un’ombra, ma una sagoma avvolta in un bagliore sfocato, come un lampo di luce riflesso su un tessuto chiaro. Per un istante, pensò di vedere un volto umano, o forse solo un abbaglio. Qualsiasi cosa fosse, l’auto, anzi Nia, avrebbe dovuto rilevarla, frenare, adattarsi, ma sembrava tutto in ritardo di un battito.
«Nia, che—?» fu l’unica frase che gli uscì di bocca. Sentì un brusio in testa, come se il dispositivo stesse cercando di elaborare un’immagine impossibile; La figura parve balzare in avanti, o forse sparire nel nulla. In un istante, l’auto sterzò convulsamente, i comandi automatici si confusero con il suo tentativo di riprendere il controllo.
Il veicolo sbandò, avvicinandosi pericolosamente alla parete del tunnel, ed un urto violento esplose contro la fiancata. Il rumore di metallo che si contorce risuonò nell’abitacolo, con una nota stridente che mozzò il fiato a Saul. Per una frazione di secondo, si sentì sollevare, poi ricadde contro il sedile. Il mondo girò su se stesso, in un lampo di luci e buio mescolati.
Il suono divenne un ronzio distante, il dolore lo raggiunse come un’eco. Saul cercò di respirare, ma l’aria pareva pesante, densa. Qualcosa si spezzò nella sua mente, o forse nel suo corpo, e poi tutto sprofondò in un silenzio ovattato. L’ultima sensazione fu la vista di una luce, violenta e terribile, eppure stranamente dolce.
Quando riaprì gli occhi, una nuova luce, più fredda ed elettrica, lo accecò, cadendo dal soffitto. Saul cercò di mettere a fuoco un volto, una stanza, qualunque cosa. Si rese conto di essere in un letto d’ospedale, con un fascio di cavi e tubicini collegati al braccio. Provò a comunicare mentalmente con Nia: “Che sta succedendo?” Silenzio. Ci riprovò, più disperato: “Nia, rispondi!”
Niente. Come se avesse smarrito un senso primario e adesso tentasse di camminare al buio. Un infermiere entrò, gli passò sopra uno sguardo e parve notare qualcosa nei suoi occhi. «Si è svegliato, avviso il medico», disse, cercando di mantenere un tono neutro. Saul inclinò la testa, respirando a fatica. «Non… non sento Nia. Cosa…?» blaterò, ma l’infermiere aveva già abbandonato la stanza.
Il medico arrivò in pochi minuti, spiegando a Saul cosa fosse successo. I sistemi dell’automobile avevano avuto un errore – una evento estremamente raro – e la macchina era impazzita. Saul miracolosamente non aveva contratto ferite, se non qualche botta, ma l’urto aveva danneggiato il dispositivo impiantato nella sua testa.
Saul serrò le labbra, cercando di restare lucido. Avvertiva un vuoto nella testa, quasi fisico, un silenzio assordante dove prima la voce di Nia lo avvolgeva e confortava. Voleva chiamare Evelynn, ma non poteva. Voleva sapere cosa era successo con gli appuntamenti che aveva pianificato per la mattina, ma ogni tentativo di comunicare con Nia affogava nel silenzio. Era come avere perso un pezzo di sé: le mani iniziarono a tremargli, e le parole uscirono spezzate.
«Quando… quando potrò riaverlo?»
«Al più presto. Serve solo un po’ di tempo per completare le ultime verifiche, poi pianificheremo l’intervento. Cerchi di stare sereno, capisco bene il suo stress, ma guardi il lato positivo. È incredibile che non abbia contratto alcuna ferita corporea!» disse il medico.
Saul annuì, sforzandosi di restare calmo. Si era accorto di quanto fosse dipendente da quel sussurro costante e ora, schiacciato dal silenzio nella sua testa, percepiva un vuoto ben più grande di qualsiasi dolore fisico.
Evelynn arrivò quasi di corsa, con il volto teso, dopo essere stata convocata dal personale dell’ospedale. Aprì la porta della stanza e trovò Saul seduto sul letto, lo sguardo perso nel vuoto. Si sforzò di sorridergli, ma il suono del suo respiro tradiva l’agitazione.
«Come stai?» chiese, a bassa voce.
«Ho la testa vuota. È strano, come… come avere perso un orecchio o un occhio. Non so spiegarmi meglio.»
Evelynn annuì, poggiò una mano sul bordo del letto. Per un attimo, restarono entrambi in silenzio, come se non sapessero come comunicare senza l’intermediazione di Nia.
Poi il medico fece ingresso nella stanza, con le cartelle sotto il braccio. «Come avevamo ipotizzato, I danni a Nia sono tali da richiedere la sostituzione completa» spiegò. «Abbiamo ordinato un dispositivo nuovo, e fissato l’operazione per il 25 dicembre. Nel frattempo, potrà andare a casa, ma avrà bisogno di assistenza. Sarà… difficile, perché non potrà contare sul supporto neurale».
Saul cercò lo sguardo di Evelynn. Lei esitò un istante, poi assentì. «Lo aiuterò io» rispose.
Era già buio quando rientrarono a casa. Evelynn lo accompagnò in camera, sistemandolo fra coperte e cuscini freschi di bucato. Rimase qualche istante sulla soglia, come se temesse di lasciarlo solo.
«Avvertimi se hai bisogno» mormorò. Chiudendo la porta, si fermò un attimo – «Saul, per il discorso di stamattina… non ci pensare ora. Ne parleremo quando starai meglio… Dopo l’operazione, intendo.» – poi, con un klack, la porta si chiuse.
Saul spense la luce con un interruttore manuale, un gesto che non compiva da anni. Attese qualche istante, incerto. Istintivamente, cercò nella propria mente la voce di Nia, quella rassicurante cantilena che gli misurava il battito e lo cullava nel sonno. Nulla. Di colpo, si sentì scoperto, vulnerabile.
Il buio era infinito. Le lancette dell’orologio sul comodino rimasero lì, opprimenti, a segnare un tempo che sembrava non passare mai. Inquieto, Saul si alzò almeno tre volte, vagò per la stanza, si sedette sul letto, provò a chiudere gli occhi. Alla fine, il sonno lo colse più per sfinimento che per rilassamento, e fu un riposo leggero e frammentato, lontanissimo dalla quiete artificialmente indotta alla quale era ormai abituato.
Il 22 dicembre iniziò in modo cupo. Saul si alzò dal letto con la bocca secca, come se la notte non gli avesse concesso riposo, eppure insolitamente tardi. Non avendo Nia a parlargli nella testa, il silenzio dominava la stanza. Per un attimo provò a pensare: “Nia? Sei lì?” ma non ci fu alcuna risposta. Quello stesso silenzio, il giorno prima solo scomodo, ora sembrava dilatato all’infinito.
Recatosi in cucina, osservò l’orologio: le nove. Evelynn era già uscita per lavoro, e gli aveva lasciato un biglietto. Pensò, fra sé, che non si era mai né svegliato così tardi, né sentito così stanco. Tentò di fare colazione, ma sentì il caffè insolitamente amaro. Qualcosa lo rese nervoso al punto che smise di bere a metà tazza. Provò a parlare a voce alta, solo per rompere quel vuoto, ma la sua stessa voce gli parve estranea, quasi inquietante.
Fece un giro per casa, e ogni stanza sembrava più piccola di quanto la ricordasse. Cercò con lo sguardo un libro, un tablet, perfino un vecchio giornale da sfogliare. Nulla. Tutto, dalla lettura delle notizie agli acquisti, passava da Nia: la casa era stata progettata per chi non doveva “perdere tempo” con interruttori, comandi manuali o dispositivi non integrati.
Si ritrovò in salotto, fisso di fronte a un muro grigio, dove grazia a Nia un monitor olografico avrebbe proiettato la programmazione con un semplice impulso mentale. Ora era solo un pannello muto. Nell’angolo, dove c’era un vecchio scaffale, giaceva un cumulo di ricordi inutili: alcuni dischi, una scatola di cavi intrecciati, un modulo di ricarica obsoleto: per qualche ragione, la vista gli indusse un sorriso melanconico quasi automatico. Saul si sedette sul divano e passò lunghi minuti — forse ore, non avrebbe saputo dirlo — a guardare nel vuoto.
La noia si trasformava in un peso sul petto. Ricordò di quando, da ragazzo, aveva iniziato a usare il primo prototipo di assistente neurale, una versione rudimentale di Nia – il Neuralink. Gli pareva che da allora ogni suo secondo fosse stato sempre riempito da qualcuno o qualcosa: aggiornamenti, notifiche, compiti, svaghi. Ora invece non c’era più nulla. La mente, priva di una guida artificiale, era in preda a continue onde di ansia. Si ricordò, all’improvviso, che i medici gli avevano prescritto dei farmaci calmanti, che velocemente recuperò dalla cucina. Poi si abbandonò di nuovo sul divano.
Verso mezzogiorno si alzò, le gambe rigide, e provò a prepararsi un pasto con il minimo indispensabile. Ogni gesto risultava goffo, come se la cucina stessa lo respingesse. A ogni forchetta di cibo, sentiva un gusto piatto. Senza Nia ad analizzare il metabolismo e calibrare la produzione di endorfine, si accorse di non avere neanche appetito.
Il tempo passava troppo lentamente. Udiva solo il ronzio del frigorifero, lo scatto della caldaia, il battito del proprio cuore. Provò a distrarsi facendo un giro nel corridoio, guardando un riflesso sbiadito della sua figura nello specchio. Fuori dalla finestra, il cielo era un grigio uniforme. Nemmeno un passante, nessun rumore di traffico; sembrava che il mondo intero si fosse fermato.
L’angoscia lo afferrò come una morsa. Senza la compagnia costante di Nia, senza un programma da consultare, senza musica, senza nulla, Saul sentì un vuoto dilagare in ogni fibra del suo corpo. Di tanto in tanto, si passava la mano dietro la nuca, dove i tecnici avrebbero collocato il nuovo impianto. Solo quel pensiero gli dava un senso di sollievo, e al contempo una strana e sottile angoscia. Per la prima volta, una parte di lui iniziava a realizzare l’enorme dipendenza che aveva dal dispositivo.
Quando finalmente arrivò sera, la luce iniziò a scemare e con essa la sua energia. Evelynn rincasò alle diciotto e gli preparò la cena, tuttavia quasi non scambiarono parole. Saul era stravolto, e non vedeva l’ora che finisse quella giornata: un unico, lungo, interminabile silenzio lo aveva accompagnato dal mattino fino a quell’ora, e paradossalmente non aveva più nemmeno voglia di parlare.
Eppure, andare a letto significava affrontare di nuovo la notte, cercare di addormentarsi senza un sostegno. Tuttavia, la notte inevitabilmente arrivò, e Saul si ritrovò ancora una volta a dover guardare il soffitto spoglio, attendendo che il sonno lo cogliesse per sfinimento. Un giorno soltanto, eppure gli pareva fosse trascorsa un’eternità.
La mattina del 23 dicembre si aprì in modo diverso. Saul giaceva ancora a letto, gli occhi puntati sul soffitto, quando si accorse che qualcosa lo stava pungolando dall’interno. Un piccolo, insistente impulso, ma non era Nia. Non era nulla di elettronico: né era la noia del giorno precedente, quando ogni ora pareva un’agonia immobile. Sentiva un tremolio nei muscoli, un fremito che si faceva strada nel corpo, spingendolo ad alzarsi. Si mise seduto sul bordo del materasso e, per un attimo, restò a guardare la parete spoglia di fronte a sé, cercando di dare un senso a quel richiamo improvviso.
Si vestì quasi senza pensarci, in fretta, tirando fuori dall’armadio un vecchio cappotto un po’ sgualcito, che non metteva da quando era ragazzo. Percorse il corridoio di casa con passi disuguali, notando il silenzio delle stanze: lo stesso silenzio che, il giorno prima, lo aveva tormentato sino allo sfinimento. E ora, invece, era come se assenza di Nia stesse assumendo un nuovo significato, uno spiraglio di libertà che, per quanto sconcertante, lo stava spingendo a uscire. Superò il solito biglietto di Evelynn – già uscita per lavoro – senza nemmeno leggerlo. Da un cassetto, quasi meccanicamente e senza rendersene conto, estrasse delle chiavi che non usava da anni. Poi, quasi senza accorgersene, si ritrovò con la mano sulla maniglia della porta d’ingresso.
Uscì per strada. L’aria del mattino pungeva la pelle, ma dentro di lui avvertiva una strana vitalità. Si mise in cammino senza un piano preciso, o quanto meno senza essere pienamente cosciente di dove stesse andando. Le gambe sembravano saper già dove andare. Il vento freddo gli sferzava il viso, e ogni passo scandiva pensieri che non si era mai concesso di ascoltare davvero. L’asfalto bagnato e i palazzi grigi attorno a lui evocavano una sensazione familiare, eppure gli pareva di vedere tutto per la prima volta. Ad ogni incrocio rallentava, come se stesse ripescando dal fondo della memoria un tragitto dimenticato.
Fu solo dopo qualche minuto che realizzò con chiarezza dove lo stessero portando i piedi: la vecchia casa di famiglia. Non vi metteva piede da anni. Cominciò a ricordare brandelli di momenti: la madre, che aveva perso piuttosto giovane, quando un intervento sperimentale le fu fatale; il suo bizzarro padre, chiuso nel suo burbero mutismo ostinato, ostile verso ogni tecnologia: anche egli sparito molti anni prima. Erano immagini sfocate di una vita da cui era fuggito da molto giovane, ma ora si facevano strada con una nitidezza improvvisa.
Quando finalmente si fermò davanti al cancello arrugginito, sentì il cuore battere più forte. Sapeva che quella casa era rimasta serrata, abbandonata da tempo. Suo padre la aveva abitata, solo, per anni, senza che lui mai gli donasse una visita. Poi l’aveva ereditata, e così era rimasta, sola a sua volta. Forse, non vi era mai più entrato: un monumento polveroso al rifiuto della tecnologia. Fece scattare la serratura con una chiave che conservava da chissà quanto, e la porta si aprì su stanze immerse in un silenzio antico, quasi sacro.
L’odore di chiuso gli riempì le narici, e i suoi occhi vagarono su una confusione di libri, soprammobili, vecchi rompicapi, accumulati alla rinfusa sui mensole, librerie, cassepanche. Ogni oggetto sembrava parlargli di un mondo che lui aveva respinto, in favore di Nia e della sua rassicurante presenza nella mente. Avanzando con cautela, passò una mano su una mensola e rimosse un velo di polvere dal dorso di un volume rilegato in maniera antiquata. Era sorprendente, per uno abituato a consulenze e report proiettati direttamente nella testa, toccare realmente i libri, rigirarseli tra le mani e sfogliarli in silenzio.
Esplorando quella sorta di sacrario ad un mondo perduto, giunse nella camera da letto del padre. Una stanza spartana, priva di apparecchiature elettriche, come se fosse rimasta ferma a decenni prima. Sul comodino, in mezzo a pochi oggetti consunti, notò un volume più spesso, con la copertina ingiallita. Lo prese e lo rigirò tra le mani, scoprendo un titolo in caratteri dorati: La Sacra Bibbia. Ne aveva occasionalmente sentito parlare: era un testo religioso. Non era particolarmente sorpreso. Aveva sospettato a lungo, in effetti, che il padre fosse affetto da qualche malattia mentale. Tuttavia, in quel momento, la noia e la curiosità lo spinsero a sedersi sul vecchio letto e iniziare a leggere.
Girati i primi fogli, le parole sembrarono risuonare nella stanza vuota: Genesi, Esodo… Saul procedeva a balzi disordinati, soffermandosi su episodi conosciuti più per sentito dire che per vero interesse. Tuttavia, più leggeva, più si sentiva strano. Quel testo, considerato come ogni altro testo del genere indice di follia e asocialità, lo stava provocando in una maniera nuova.
Sentiva crescere dentro di sé un tumulto, come un fruscio costante, qualcosa di indefinito. Ogni frase letta gli lasciava dentro una vibrazione e un senso di domanda. Storie bizzarre, antiche, allo stesso tempo vicine e aliene, che parlavano di odio e amore, di violenze terribili e di eroismo incondizionato. Ogni racconto gli appariva così incredibilmente vivo; come se quelle storie, pur essendo storie, fossero più vere della realtà asettica e meccanica a cui era sempre stato abituato.
Un rimasuglio di razionalità lo spinse a pensare che fosse solo confusione, shock causato dall’infortunio e dalla assenza di Nia. Ma una altra ragione, diversa e più profonda, lo incalzò, da qualche luogo dentro di sé: facendoli notare come quella confusione avesse un calore dissimile da tutto l’ordine che, sino ad allora, aveva conosciuto.
Quando alla fine si alzò, stringendo il libro al petto, aveva il respiro affannoso, gli occhi leggermente lucidi. Uscì dalla casa quasi in fretta, come chi ha paura di essere scoperto in un gesto proibito. Fu allo stesso tempo sorpreso e rassicurato dallo scoprire che fuori la notte era già calata, e gli offriva rifugio. Mentre camminava verso casa, il freddo e il silenzio sembravano avvolgerlo in un bozzolo di pensieri tumultuosi. Per tutta la strada, si ritrovò a sfiorare la copertina polverosa. Gli pareva che la lettura avesse aperto una breccia, un passaggio verso un tipo di intimità interiore che, forse, la costante presenza di Nia aveva finito per soffocare.
Si incamminò verso il proprio appartamento a passo rapido, quasi spaventato dalla rapidità con cui le sue certezze stavano vacillando. Sentì un pensiero incredibilmente bizzarro entrare violentemente nella sua testa: Non voleva più ripristinare il Nia. Non ancora, almeno. Tastò, camminando, la copertina della Bibbia, come se potesse aiutarlo a decifrare quello che stava accadendo dentro di lui. E, poco a poco, la prospettiva di una vita senza Nia non gli parve più soltanto un incubo.
Saul arrivò a casa quando era già notte fonda. La sagoma del portone si stagliava in un buio silenzioso, spezzato solo da qualche lampione tremolante. Stringeva il libro sotto il braccio, nascosto sotto il cappotto, come se potesse proteggerlo da tutto. Aprendo la porta, trovò Evelynn in salotto, quasi addormentata sul divano. Lei girò dolcemente la testa verso di lui, con aria di lieve preoccupazione.
«È tardi… Dove sei stato? Dovresti stare a casa, almeno fino all’operazione…» mormorò, cercando un contatto visivo.
Saul esitò. Pensò a come giustificare la sua assenza, ma le parole gli si annodarono in gola. Alla fine scosse la testa con un sorriso incerto. «Ho… avevo bisogno di fare un giro. Non riuscivo a stare in casa.»
Il silenzio che seguì era denso, quasi si potesse toccare. Evelynn parve sul punto di aggiungere qualcosa, ma non lo fece. Saul distolse lo sguardo, consapevole di quanto fosse diventato difficile dialogare senza l’assistenza di Nia. Eppure, quella sera, ne era perfino grato. Non voleva suggerimenti, statistiche o analisi emotive generate da un algoritmo: c’era qualcosa di troppo intimo, di troppo importante che lo riguardava.
«Vado a dormire. Ho bisogno di riposare» disse, con un filo di voce.
Evelynn annuì, incerta, e lo salutò con un cenno rapido della mano.
La notte trascorse in un’agitazione febbrile. Saul si ritrovò a rigirarsi nel letto, gli occhi sbarrati nel buio. Nella sua mente si rincorrevano le immagini di quanto letto poche ore prima. La Bibbia era nascosta al sicuro nel suo comodino, eppure lui non osava riprenderla in mano quella notte: sentiva di dover prima mettere ordine dentro di sé. Riuscì infine a scivolare in un sonno leggero e intriso di sogni confusi.
Anche il giorno successivo, la vigilia di Natale, Evelynn si preparò in fretta per andare al lavoro, lasciandolo da solo. Appena sentì la porta di casa richiudersi, Saul si alzò. La Bibbia tornò fra le sue mani, e questa volta la aprì a caso, lasciando che le pagine si sfogliassero da sole come spinte da un vento misterioso. L’intera mattinata trascorse così, tra una lettura disordinata e una serie di pensieri che si agitavano nel profondo. Ora avvertiva una strana contraddizione: da un lato, un senso di euforia, quasi di scoperta; dall’altro, un’inquietudine che lo spingeva a interrogarsi su tutto ciò che aveva fin lì accettato come scontato.
Verso l’ora di pranzo, si rese conto che non aveva toccato cibo e che i muscoli, fermi da tanto tempo, si erano indolenziti. Provò un vago desiderio di alzarsi, di muoversi, ma continuò a rimandarlo. Era come se la curiosità lo tenesse incollato al testo. Leggeva di promesse, di storie antiche, di parole che evocavano realtà lontane dal mondo ipertecnologico a cui era abituato. Ad ogni frase, si sentiva come trafitto da uno spillo di emozione: a volte era gioia, a volte era angoscia, altre volte un profondo senso di pentimento. E, in questa altalena emotiva, avvertiva anche una sottile forma di liberazione, un respiro che si faceva sempre più ampio.
Quando Evelynn rincasò sul tardo pomeriggio, lo trovò in salotto: Saul si affrettò a nascondere il volume fra i cuscini del divano, sforzandosi di apparire normale.
«Tutto bene?» chiese lei, stanca e ancora vestita con l’abbigliamento professionale.
«Sì… ho solo riposato, ho cercato di recuperare un po’ di forze prima dell’operazione di domani.»
Evelynn annuì, ma dai suoi occhi traspariva la sensazione che ci fosse qualcosa di strano. Non insistette, si limitò a lanciare uno sguardo rapido alla stanza: nessun segnale che potesse suggerire ciò che Saul stesse veramente facendo. Sembrava un normale pomeriggio di un malato in convalescenza.
I due condivisero una cena rapida e silenziosa. Poi, si congedarono poco dopo per la notte, ognuno chiuso nei propri pensieri. Tuttavia, mentre Evelynn si addormentava dolcemente — confortata dalle sottili correzioni neurali di Nia — Saul restò disteso a occhi aperti, il cuore che batteva forte. Un’ora, forse due, passò nell’oscurità, finché non si convinse di avere il momento giusto per rialzarsi. Con cautela, tirò fuori il libro da sotto le coperte e, in punta di piedi, uscì dalla stanza per non disturbare Evelynn.
Seduto al buio in cucina, con la luce di una sola lampada ad illuminare il tavolo, Saul continuò a leggere il suo libro proibito. “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” – era ormai notte inoltrata, quando incontrò queste parole, che in quel momento gli parvero come incandescenti sulla pagina. Lui, che aveva sempre pensato all’esistenza come a un puzzle di dati, statistiche e miglioramenti continui, si sentì strattonare l’anima da un’idea completamente diversa: un Amore senza condizioni, senza calcoli, senza limiti, più forte di qualsiasi ostacolo.
“Né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future… né alcun’altra creatura…” — Saul si sentì attraversare come da una scarica elettrica: rimase a fissare la pagina, un formicolio caldo che partiva dallo sterno e si irradiava fin nelle braccia. Fu come ritrovarsi di fronte a uno specchio mai guardato prima. E in quello specchio vedeva, per la prima volta, la propria vulnerabilità, la propria solitudine, la propria paura… e al tempo stesso una luce che poteva riscattarlo.
Inizialmente, si limitò a chiudere le palpebre, come se il peso di quella rivelazione fosse troppo da reggere tutto in una volta. Poi, senza rendersene conto, cominciò a singhiozzare piano. Prima un tremito delle labbra, poi una lacrima incerta, infine un pianto crescente e disperato. Lasciò cadere la fronte tra le mani, e tutto il corpo in avanti, sfiorando le pagine del libro con le nocche tremanti. Provò un impeto di rimorso, di gratitudine, di liberazione — un groviglio di emozioni tanto forti che gli tolsero il respiro.
Saul, con il viso rigato di lacrime, cominciò a singhiozzare parole di pentimento a un Dio che non sapeva neppure se fosse reale, ma di cui sentiva la presenza come mai aveva provato prima. Lo invocò, chiedendogli di aiutarlo a spezzare le catene che lo avevano finora avvolto, a fargli scoprire ciò che significava esistere veramente, al di là di proiezioni olografiche e interventi neurali.
Nella stanza accanto, Evelynn dormiva profondamente. Lei aveva ancora Nia operativa, che di notte filtrava e attenuava i rumori indesiderati per favorire un sonno più riposante. Così nessun suono di quell’implosione emotiva raggiunse le sue orecchie. Rimase completamente ignara del turbinio che stava sconvolgendo Saul, a pochi passi di distanza.
La mattina del 25 dicembre s’alzò avvolta in una luce fredda e biancastra. Evelynn e Saul si recarono in ospedale in un silenzio teso. Lei cercava di trattenere il nervosismo, sapendo che di lì a poco lui sarebbe stato sottoposto a un intervento importante, e tuttavia avvertiva qualcosa di stonato in quella determinazione muta che lui ostentava.
All’ingresso dell’ospedale, la sala d’attesa era avvolta in una calma innaturale. Il candore dei muri, bianchi e sterili, contrastava stranamente con i volti stanchi di medici e infermieri, reduci da turni interminabili. Saul teneva lo sguardo basso, la giacca stretta attorno al petto, come per difendersi dai troppi stimoli. Evelynn, vicino a lui, mostrava un sorriso teso a chi passava, ma lanciava occhiate preoccupate al compagno.
Finalmente, un medico li fece entrare in un piccolo ufficio, con le finestre socchiuse, un arredamento minimale e pallidi muri liberi da quadri o decorazioni. Sul tavolo troneggiava un modulo di consenso informato.
«Allora, signor Kaplan» iniziò il medico, scambiando uno sguardo serio con Evelynn. «Come concordato, è tutto predisposto per la sostituzione del dispositivo Nia. Abbiamo eseguito le analisi preliminari, è tutto in ordine. Non c’è alcun rischio particolare, a parte quelli minimi di ogni intervento. Firmi qui.»
Saul, che in passato aveva sempre fatto scorrere velocemente lo sguardo sulle carte mediche senza darvi troppo peso, prese in mano il modulo in silenzio. Guardò i fogli come se gli fossero stranieri, poi alzò gli occhi, quasi sbattendo il modulo sul tavolo. «Non firmo» disse, piano ma con fermezza.
Evelynn sgranò gli occhi. Per un istante, il ronzio di un vecchio ventilatore fu l’unico suono nella stanza.
Il medico lo fissò, esitò, poi si ricompose. «Mi perdoni, forse non ho capito bene. Come sarebbe a dire che non firma?» Il suo tono manifestava un completo stupore, sul fondo di cui sembrava muoversi una qualche forma di irritazione.
Saul si spostò sulla sedia, come per trovare una posizione più comoda. «So che l’intervento è banale, ma non è quello il punto. Io non intendo farlo.» ribadì. «Non voglio più Nia.»
Il medico lo fissò, ancora incredulo, la penna immobile nella mano. «Signor Kaplan, mi scusi, forse c’è un equivoco. Nessuno rifiuta Nia, è praticamente impensabile. Lei stesso avrà già sperimentato quanto sia difficile vivere senza. Stiamo parlando di un’infrastruttura essenziale per lavorare, per le funzioni di base… anche per usare un semplice elettrodomestico, o guidare la macchina!» Gli lanciò uno sguardo a metà tra la perplessità e la supplica. «È sicuro di capire le implicazioni di questo rifiuto?»
Evelynn ascoltava confusa – forse senza capire o rendersi conto di cosa stesse succedendo. Fu la voce di Nia a spronarla a parlare, per il bene di Saul. «Saul, ma di cosa stai parlando?» disse Evelynn. «Hai visto in questi giorni quanto sia dura, non sapevi nemmeno come riempire le giornate! Cosa farai quando tornerai a lavoro? Nessuno vive senza Nia, è una sciocchezza!»
Saul scosse il capo, con un’espressione dolorosa ma irremovibile. «No. Non voglio più dipendere da Nia. Non firmerò.»
Il medico si prese un momento di silenzio, quasi sperando di dargli il tempo di cambiare idea. Posò la penna e incrociò le mani sul tavolo, cercando di mantenere la calma. «Signor Kaplan, noi ci occupiamo di queste operazioni ogni giorno. Ricordi che Nia non è soltanto un supporto per lavorare o intrattenersi, ma un sistema che previene disturbi cognitivi, regola i cicli del sonno, fornisce stimoli positivi. Rinunciarvi, è…» Tacque di nuovo, trattenendo il respiro, poi proseguì con voce leggermente più aspra. «È assurdo, ecco. Per quanti anni ha usato l’assistente neurale, signor Kaplan? Il cervello ci si abitua, sa. Senza l’equilibrio indotto potrebbe anche collassare a livello psicologico. Non può semplicemente interromperne l’utilizzo da un giorno a l’altro, a seguito di un trauma.»
Sospirò, poi riprese: «E come farà a fare… tutto? A partecipare alla società? Da questo dispositivo oggi dipende la sua vita, lo capisce?» L’accenno di frustrazione si fece strada per la prima volta nello sguardo del medico. Era ancora combattuto tra l’incredulità — come poteva qualcuno rifiutare ciò che tutti consideravano ormai indispensabile? — e il senso di responsabilità professionale, che lo spingeva a far ragionare il paziente.
Evelynn, con le mani strette l’una nell’altra, cercò ancora gli occhi di Saul. «Per favore… spiega almeno perché. Non ha senso…»
«Giusto», incalzò il medico. «Posso capire se ha qualche preoccupazione per l’operazione, ma può fidarsi di noi medici, come può fidarsi di Nia.» A queste parole, Nia fornì al medico le statistiche degli interventi di sostituzione dell’assistente neurale. «Parliamo di un intervento con un tasso di rifiuto di uno su due milioni, praticamente nullo. E anche in questo caso, non sono mai stati registrati effetti collaterali gravi.» aggiunse, ripetendo le parole di Nia. La sua voce, però, tradiva una crescente irritazione.
Saul avrebbe voluto mettere a nudo le sue ragioni, parlare di ciò che gli stava succedendo dentro, ma rimase in silenzio. Sapeva che non avrebbero capito, o forse non voleva forzare la loro comprensione. Sentì un groppo in gola, ma non si mosse di un millimetro.
Il medico lanciò un’ultima occhiata ai fogli del consenso informato, poi sospirò e poggiò la mano sul tavolo. L’ostilità si mescolava ora a un senso di resa: «Se non firma, non possiamo procedere. Noi siamo medici, non il Ministero. Possiamo intervenire solo con il suo consenso. Sia come vuole lei, signor Kaplan, ma sappia che questa è una scelta che mette seriamente a repentaglio la sua qualità di vita, oltre che la sua sicurezza. Noi lo sconsigliamo vivamente, ma se si ostina, non possiamo obbligarla.»
A quella sentenza, la stanza ricadde in un silenzio pesante. Evelynn sentì un vuoto allo stomaco, come se un precipizio si fosse aperto sotto i suoi piedi. Eppure, nonostante fosse confusa e terrorizzata, si rese conto di non poter fare altro che abbassare lo sguardo e accompagnare Saul fuori da quell’ospedale asettico e illuminato al neon. Strinse la borsa tra le mani e si alzò, la voce ridotta a un filo: «Lo… lo porterò a casa. Scusatemi».
Quasi in un istante, si ritrovarono nel corridoio, in mezzo a pochi inservienti che li guardavano di sbieco, incuriositi o scandalizzati. Nessuno parlava. Evelynn guidò Saul verso l’uscita, in silenzio. Fuori, l’aria sapeva di neve imminente.
I medici, intanto, riunitisi nella stanza, discutevano dell’accaduto. Il medico che aveva consultato la coppia, scuoteva il capo con aria cupa. Il rifiuto di Saul non era solo un diniego alla procedura: era un atto di ribellione nei confronti di un sistema che si considerava insindacabile. Uno di loro, il più anziano, sembrò brevemente guardare il vuoto, ascoltando una qualche voce immateriale. Poi mormorò: «È impazzito, chiaramente. Non si spiega altrimenti. Andrà valutato dal Ministero, la sua qualità di vita è palesemente a rischio. E’ nostro compito segnalarlo subito».
Così, mentre Evelynn e Saul tornavano verso l’auto, con lei che serrava le labbra in uno sconforto muto, la loro vita entrava ufficialmente in una fase di allarme. I medici, nel frattempo, prepararono le scartoffie per inoltrare la segnalazione Ministero della Qualità della Vita, convinti che Saul fosse un paziente mentalmente compromesso e irrecuperabile.
La porta di casa si richiuse alle loro spalle con un leggero tonfo, come un epilogo sordo a un dramma che non accennava a concludersi. Evelynn si tolse il cappotto e lo gettò su una sedia, lasciando scivolare la borsa a terra. Abbandonandosi sul divano, si massaggiò le tempie, esausta, mentre con un pensiero, comandava a Nia di accendere il bollitore e preparare l’acqua per una tisana.
Saul si muoveva con cautela, come se temesse che un rumore brusco potesse far esplodere tutta la tensione che aleggiava nella stanza. La casa era immersa in un silenzio innaturale; come un vetro al limite del suo carico e pronto a frantumarsi; ma solo dal punto di vista di Saul: nella testa di Evelynn, una voce suggeriva dolcemente come ingaggiare la conversazione.
Per alcuni istanti rimasero immobili, come due sconosciuti. Alla fine, lei si voltò, cercando di dominare la confusione che le si agitava dentro. Alzò una mano, come per dire a Nia di zittirsi. «Spiegami» disse con voce strozzata. «Ci sarà pure un motivo se hai deciso di rifiutare l’intervento, se…» Fece una pausa, cercando di raccogliere pensieri e coraggio. «Da un giorno all’altro vuoi vivere senza Nia. Come fai anche solo a pensare una cosa del genere?»
Saul inspirò, quasi volesse caricarsi di aria per trovare la forza di parlare. «È successo qualcosa in questi giorni… un libro, nella casa di mio padre. Ho iniziato a leggerlo. È… diverso da qualsiasi cosa avessi mai visto.»
Evelynn lo guardò con aria interrogativa, la fronte aggrottata. «Un libro? Ma che stai dicendo? E da quando un libro vale la tua vita? Di che si tratta? Di un romanzo? Vecchie memorie di quello squinternato di tuo padre? Sei diventato di punto in bianco un no-tech come lui?» Il suo tono tradiva un nervosismo crescente.
Saul esitò, come se stesse per infrangere una barriera invisibile. «No, non è questo. È… un testo religioso. Antico. Roba che nessuno considera più, anzi, che molti considerano segno di… disturbi.» Le parole uscirono con fatica, ma la sua espressione era seria, decisa.
«Religione?» ripeté Evelynn, con un tono che mescolava fastidio e sorpresa. Quasi si mise a ridere, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Fu come un singulto, mezzo strozzato. «Stai dicendo che stai buttando via la tua vita per… superstizioni?» Non riusciva a connettere quell’immagine con l’uomo razionale e lineare che conosceva. «Cioè, delle fantasie ti avrebbero convinto a non ripristinare Nia?»
Saul socchiuse gli occhi, come se avesse previsto proprio quella reazione. «Mi hanno aperto una prospettiva. Qualcosa che…» Sentì le parole appiccicarsi in gola. «Qualcosa che è più profondo. E senza Nia ho capito che…»
Evelynn alzò una mano per zittirlo, come se ogni sillaba in più potesse farle ancora più male. Era pallida, le labbra strette. «Io… non capisco. Non voglio capire.» Aveva un tremolio impercettibile alle dita. Stava per aggiungere altro, ma in quel momento il campanello trillò con uno squillo metallico che spezzò la tensione come un colpo di scure.
Sulla soglia, un piccolo drone postale consegnò una busta sigillata, indirizzata a Saul Kaplan. Evelynn la prese, notando subito il simbolo inconfondibile del Ministero per la Qualità della Vita, impresso in ceralacca sintetica. «Non posso crederci…» mormorò, come paralizzata per qualche istante. Il cuore le rimbombava nel petto. Con mani fredde, porse il plico a Saul, quasi scottasse.
Lui lo afferrò, spostando lentamente lo sguardo dalla busta al volto di Evelynn. Strappò il sigillo e trasse il foglio all’interno. A una prima occhiata, vide un testo stringato, formale. Poi le parole “Quality of Life Assessment” gli balzarono agli occhi come un verdetto: era convocato per l’indomani, 26 dicembre, presso lo stesso ufficio in cui, ironia della sorte, lavorava Evelynn.
Per un istante, non realizzò del tutto. Il suo sguardo corse lungo la pagina in cerca di un appiglio, ma c’erano solo orari, riferimenti di protocollo e freddo gergo burocratico. Un brivido gelido gli serrò il petto. Fu come se in quella riga trovasse la risposta definitiva al suo destino: non si sarebbe trattato di un semplice colloquio. Evelynn aveva lavorato come quality-of-life assesment specialist per anni. Era il lavoro della sua compagna. Sapeva bene come funzionava: per le vite che venivano valutate essere irrimediabilmente compromesse, vi era una unica prescrizione: l’interruzione vitale terapeutica.
Mise giù il foglio, le mani ancora lievemente tremanti. E, in quel preciso istante, come un lampo in un cielo scuro, la disperazione lasciò spazio a una calma disarmante. Era come se un meccanismo più grande di lui si fosse appena innescato e l’unica cosa che potesse fare fosse affrontarlo. Una ruota terribile, capace di schiacciare qualsiasi uomo impreparato si era messa in moto: ma lui, in quel momento, si sentiva come al sicuro sul fulcro di questo ordigno, il solo punto fisso, ed immobile. Una profonda pace lo riempì, senza che lui potesse spiegare a sé stesso l’origine di una così inopportuna quiete.
Evelynn invece rimase lì, incapace di parlare. Conosceva a memoria la procedura che avrebbe atteso Saul. Ogni scenario le si presentò davanti agli occhi, come le cartelle che aveva compilato tante volte: pazienti giudicati “irrecuperabili,” la firma, la procedura finale.
«Non…» riuscì a dire solo questo, come se l’aria mancasse. Poi si coprì il viso con entrambe le mani, cercando di soffocare un singhiozzo. Sentiva la presenza di Saul a pochi passi, ma non aveva la forza di guardarlo.
Saul posò la lettera sul tavolo e si avvicinò a lei. Le sfiorò il braccio, incerto se fosse giusto. Eppure, in mezzo a quel silenzio funesto, la sua voce uscì sorprendentemente ferma: «Non avere paura. Va tutto bene.»
Evelynn sollevò il viso, gli occhi lucidi e colmi di incredulità. «Ma che stai dicendo, Saul?… tu ti rendi conto che…» Si interruppe, con la frase sospesa nell’aria. La paura le era entrata nelle ossa, insieme a un senso di impotenza che la travolgeva. «No, non è questo. Hai sicuramente un disturbo acuto. Non è possibile che questa cosa sia accaduta da un giorno all’altro. Lo specialista che ti prenderà in carico troverà cosa non va, ti saranno prescritte delle medicine, tutto tornerà alla normalità, la nostra vita riprenderà come previsto. Andrà in questo modo.» disse, parlando più a sé stessa che al suo compagno.
Del resto, dei pazienti che lei aveva periziato, la maggior parte aveva riportato infermità guaribili con l’ausilio di psicofarmaci. E, a differenza di quelle dell’ospedale, le prescrizioni del ministero erano coattive. Saul avrebbe collaborato.
Il caso peggiore non era nemmeno da considerare. Evelynn stessa aveva prescritto l’interruzione vitale terapeutica forse una ventina di volte nella sua carriera, e trattava centinaia di casi all’anno. Sarebbe andato tutto per il meglio.
Saul però non rispose. In quell’attimo, percepì un senso di certezza che sorpassava ogni razionalità: avrebbe affrontato la valutazione, e sapeva benissimo come si sarebbe conclusa, se non avesse rinnegato tutto ciò in cui credeva, quell’inspiegabile ma potente novità che lo aveva cambiato. Nel silenzio della casa, tra le ombre della sera, rimase soltanto la consapevolezza di un confine oltre il quale nessuno dei due era mai stato.
Il giorno successivo, Evelynn e Saul uscirono di casa all’alba. L’aria era così fredda che ogni respiro formava una piccola nube, ma lui sembrava non farci caso. Evelynn condusse l’automobile – Saul, senza Nia, non poteva farlo – attraverso le strade spoglie. La guida, pur richiedendo un conducente, era in effetti totalmente autonoma, ma Evelynn si sforzava di guardare la strada. Non voleva guardare in faccia Saul.
Il suo volto era totalmente cambiato dal giorno prima. Appariva improvvisamente sereno, distaccato, quasi apatico. Guardare quel sorriso incomprensibile evocava nella mente di Evelynn un vortice di emozioni contrastanti. Nella sua mente, Nia tentava di calmarla con parole seducenti e impulsi calmanti.
Appena giunti all’edificio governativo, Evelynn si fermò davanti all’ingresso principale, un’enorme facciata di vetro e acciaio che rifletteva il cielo grigio del mattino. Le sue mani erano strette attorno alla tracolla della borsa, mentre i suoi occhi si posavano sull’insegna sopra le porte automatiche: “Ministero per la Qualità della Vita.” Le parole, che solitamente leggeva con orgoglio, sembravano ora quasi opprimenti.
«Devi entrare da solo e mostrare la lettera di convocazione alla reception.» La sua voce era piatta, ma le mani tremavano leggermente. «Io devo passare dall’ingresso riservato ai dipendenti…» Si interruppe un attimo, incerta se proseguire. «Quando avrai finito, prendi un taxi per tornare a casa. Sei senza Nia, quindi chiedi alla reception: ti aiuteranno a chiamarlo. Se avessimo avuto la convocazione con più anticipo, avrei preso un permesso speciale…»
Saul annuì, sereno, e fece un passo verso di lei. «Non preoccuparti, Eve. Andrà tutto bene.» disse, inclinando leggermente il capo.
Evelynn evitò il suo sguardo, sentendo un nodo stringerle la gola. «Sì. Torna a casa. Io… io arriverò quando avrò finito il mio turno. Saul, ti prego… non fare sciocchezze. Puoi guarire. Guarirai. Devi solo collaborare con lo specialista.» Cercò di sorridere, ma le labbra non obbedirono.
Lui le sfiorò la mano per un attimo, un gesto delicato, poi si voltò e varcò l’ingresso. Evelynn lo guardò sparire nella sala d’attesa, un ambiente asettico che conosceva fin troppo bene, poi si voltò rapidamente verso l’entrata laterale, riservata al personale, sforzandosi di non pensare.
Una volta raggiunto il suo ambulatorio, Evelynn si lasciò cadere sulla sedia con un lungo sospiro. La stanza era identica a quella di sempre: mobili di metallo, pareti spoglie, un terminale olografico al centro della scrivania. Ma oggi tutto le sembrava più freddo, più minaccioso.
«Nia… scarica la lista degli appuntamenti per oggi,» disse infine, chiudendo gli occhi. La sua voce era appena un sussurro, e già si aspettava la solita sequenza impersonale di nomi e orari.
«Elaborazione in corso,» rispose Nia con il suo tono neutro e impeccabile. Dopo pochi istanti, un fascio di luce proiettò l’elenco sul terminale olografico.
Evelynn si sentì gelare. Il primo nome della lista lampeggiava davanti ai suoi occhi: Saul Kaplan.
«No…» sussurrò, portandosi una mano alla bocca. Il cuore iniziò a battere all’impazzata. «No, no, no… dev’esserci un errore.»
«L’elaborazione è corretta,» replicò Nia, senza la minima esitazione. «Il sistema ha assegnato il paziente Saul Kaplan alla dottoressa Evelynn Sanders. L’assegnazione è stata elaborata tramite il protocollo standard. Non vi è alcun errore.»
«Non è possibile,» protestò Evelynn, con un filo di voce, mentre una disperazione crescente la invadeva. «Non posso essere io. È un conflitto di interesse! È contro ogni logica!»
«La procedura di assegnazione è studiata per distribuire equamente il carico di lavoro tenendo conto della specificità dei pazienti e degli specialisti,» spiegò Nia, senza mostrare alcun segno di empatia. «Non sono consentite eccezioni.»
Evelynn si alzò di scatto, camminando nervosamente avanti e indietro per la stanza. «Devo parlare con il dirigente,» disse infine, tentando di raccogliere i pensieri. «Nia, metti in comunicazione con il direttore dell’unità.»
«Connessione in corso…» rispose l’IA.
Dopo pochi secondi, una voce maschile, piatta e formale, riempì la stanza: «Direttore Lang. Buongiorno dottoressa Sanders, cosa posso fare per lei?»
«Direttore,» iniziò Evelynn, con il fiato corto, «c’è stato un errore nell’assegnazione dei pazienti. Mi è stato assegnato il caso di Saul Kaplan. Non posso occuparmene: è… è il mio compagno!»
Ci fu una breve pausa – che a Evelynn sembrò infinita – dall’altro capo della linea. «Capisco la difficoltà, dottoressa, in effetti è una coincidenza spiacevole» rispose Lang, con un tono incolore. «Ma il sistema non commette errori. Ed in ogni caso, è oltre i miei poteri come dirigente locale alterare le elaborazioni dell’algoritmo. Anche volendo, non potrei fare nulla. La prego di attenersi al protocollo.»
«Ma non è…» Evelynn si interruppe, sentendo la gola serrarsi. Non poteva essere vero. Non poteva essere reale. «Direttore, non posso farlo.»
«Non c’è alternativa,» ribatté Lang, implacabile. «È suo dovere professionale. Le ricordo che il sistema non prevede eccezioni personali. Dottoressa Sanders, è solo un quality of life assessment. Ne ha completati una dozzina alla settimana per gli ultimi dieci anni. Faccia semplicemente il suo lavoro.»
La connessione si interruppe, lasciandola sola nel silenzio della stanza. Evelynn rimase immobile per qualche istante, sentendo le lacrime pungerle gli occhi. Poi, con le gambe tremanti, si abbandonò nuovamente sulla sua sedia.
Completata l’accettazione, Saul si avviò verso l’ambulatorio tredici. Camminava con passi lenti ma decisi, come se ogni passo fosse un rito, un atto di accettazione e obbedienza al proprio destino. Quando raggiunse la porta, si fermò un momento. Osservò la targhetta metallica accanto al pannello: Dott.ssa Sanders, Evelynn.
Non provò sorpresa. Forse, in fondo, se lo aspettava. Bussò leggermente, con le nocche appena piegate.
«Avanti,» disse una voce stanca dall’interno.
Saul aprì la porta ed entrò. L’ambulatorio era luminoso, ma sterile, spoglio. Attraversò la stanza con calma e si sedette sulla sedia riservata ai pazienti. Evelynn era già lì, ma non lo guardò. Stava seduta rigida, con le mani intrecciate davanti a sé, gli occhi fissi su un punto indeterminato del muro dietro di lui.
Il silenzio tra loro era palpabile, come una presenza opprimente nella stanza. Saul lo ruppe, con un sorriso sottile che non raggiunse gli occhi. «È uno scherzo del destino abbastanza crudele, non trovi?»
Evelynn non rispose. Le labbra le tremarono per un istante, ma rimase muta. Era come se le sue parole fossero rimaste impigliate in una rete di pensieri confusi e sentimenti contrastanti.
Il silenzio si trascinò, lento e pesante. Forse sarebbe continuato all’infinito, se Nia non fosse intervenuta.
«Inizio del Quality of Life Assesment,» ordinò la voce nella mente di Evelynn, fredda, meccanica, inesorabile. «La prima fase prevede l’analisi dei parametri vitali.»
Evelynn chiuse gli occhi, inspirando profondamente per placare la nausea che le saliva alla gola. Aprì il terminale olografico e prese il dispositivo per l’analisi.
«Saul…» iniziò, ma la sua voce si spezzò. Tossì leggermente e riprese, senza sollevare lo sguardo. «Devo… devo iniziare con la procedura.»
Saul annuì, senza smettere di osservarla. «Va bene,» disse con un tono calmo, quasi consolante. La sua voce era così serena che sembrava stonare con la tensione che saturava la stanza.
Evelynn si avvicinò, tenendo il dispositivo con mani tremanti. Collocò su Saul una serie di elettrodi, poi un due aghi sottili, uno sul polso ed uno alla base della nuca. Il terminale iniziò a proiettare una serie di letture. Battito regolare, pressione stabile, glicemia in ordine, livelli di testosterone, cortisolo, serotonina, glutammato… Tutto nella norma. Non c’era nessun segno di scompenso biochimico.
Evelynn deglutì, fissando le letture. Era certa che avrebbe trovato qualcosa che non andava, qualcosa che avrebbe suggerito una patologia psichiatrica causata da uno scompenso, una infezione acuta, qualcosa del genere. Qualcosa per cui avrebbe potuto prescrivere un trattamento medicinale. Ma Saul era perfettamente sano.
Rimase paralizzata. Leggeva ancora e ancora gli stessi dati, cercando disperatamente una via di fuga, quando la voce di Nia intervenne di nuovo. «Parametri vitali nella norma. Non sono evidenti patologie psichiatriche. Procedi con le domande di screening.»
Evelynn non sapeva cosa dire. Le parole di Nia le parvero come un chiodo che crudelmente le squarciava la carne. Si sentiva bloccata, schiacciata, sconvolta: alla fine, in preda alla confusione, pronunciò una domanda a caso. «Hai… hai dormito bene?» chiese, la voce più debole di quanto intendesse.
«Abbastanza,» rispose Saul, senza esitazione. «Ho avuto modo di riflettere, durante la notte.»
Lei si irrigidì, il dispositivo ancora stretto tra le mani. Non riusciva a guardarlo negli occhi, ma sentiva il suo sguardo, penetrante, come se potesse leggere ogni emozione che cercava disperatamente di mascherare.
«La domanda “hai dormito bene”, non è prevista dal protocollo, dottoressa. Procedi con le domande di screening,» incalzò Nia.
Evelynn posò sul tavolo il dispositivo con un gesto secco, come se quel semplice atto potesse scacciare il caos nella sua mente. Ma il silenzio nella stanza sembrava amplificare il ronzio incessante di Nia, che scandiva ogni passo della procedura con precisione asfissiante. Evelynn sollevò lo sguardo sul terminale e avviò la sequenza successiva, sentendosi come un ingranaggio di una macchina che non poteva più fermarsi.
Saul, intanto, restava immobile. La sua calma era quasi disarmante, come se si fosse già lasciato alle spalle il peso della situazione. Non c’era traccia di rabbia, paura o esitazione. Il suo sguardo si posò su di lei, sereno, e per un istante le parve quasi che volesse consolarla. Ma quel distacco – quella tranquillità così fuori luogo – le penetrava sotto la pelle, tormentandola. Era come se lui stesse vivendo un’altra realtà, una realtà che lei non poteva comprendere.
Evelynn deglutì di nuovo, cercando di ingoiare il groppo che le stringeva la gola. Le parole di Nia risuonarono nella sua mente, fredde e inesorabili, e lei si trovò a ripeterle, con una voce che non sembrava nemmeno sua.
«Saul Kaplan, sei sottoposto a questa perizia a seguito di segnalazione per una mancata procedura medica. Il tuo benessere psichico è oggetto di dubbio.» Le parole le uscivano meccaniche, scandite, come una lettura da un copione. «A seconda della valutazione di questo ufficio ti saranno indicate delle terapie. Se l’analisi rivelerà una patologia curabile, ti sarà prescritta una cura adeguata. Se la tua condizione risulta non guaribile e la qualità della tua vita risulta irrimediabilmente compromessa…» esitò appena, poi continuò, «ti sarà prescritta l’interruzione vitale terapeutica. È tutto chiaro?»
Non alzò lo sguardo, non poteva.
«È tutto chiaro,» rispose Saul, con un tono morbido, quasi gentile. Un’altro chiodo.
Evelynn sentì il peso di quelle parole come un macigno. Lui la stava guardando, lo sapeva, ma non riusciva a sostenerne lo sguardo. C’era qualcosa di inspiegabilmente affettuoso nella sua voce, come se fosse lui a volerla rassicurare, come se fosse lui a prendersi cura di lei in quel momento.
Iniziò con le domande, seguendo l’ordine freddo e metodico che Nia le indicava. Condizioni fisiche generali. Ore di sonno. Abitudini alimentari. Evelynn si sforzava di mantenere la voce ferma, ma ogni parola le graffiava la gola.
Quando giunse al nodo della questione – il motivo dell’assenza di Nia – Saul rispose con la stessa calma che l’aveva accompagnato fin dall’inizio.
«Non ne avevo più bisogno,» disse, semplice.
Evelynn trattenne il fiato, ma non osò replicare. Il terminale continuava a riportare segnali biochimici perfetti: battito regolare, livelli ormonali e neurochimici nella norma, nessun segno di squilibrio. Era assurdo. Saul sembrava più stabile di molti pazienti con l’impianto attivo. Eppure, c’era qualcosa in lui, qualcosa che sfuggiva a qualsiasi parametro misurabile.
Evelynn continuava a fare domande, ma sentiva che la situazione le stava scivolando tra le dita. Saul rispondeva con una serenità che la faceva rabbrividire. Era come se avesse accettato tutto, persino il suo destino, e quella certezza, così immobile e inspiegabile, era più di quanto lei potesse sopportare.
«Rifiuti la riattivazione di Nia, nonostante le conseguenze che…» Evelynn si morse il labbro e gettò uno sguardo su un riquadro lampeggiante: “Possibilità di recupero: incerta, vicino allo zero.” «…le conseguenze che sai?»
Saul fece un cenno affermativo. «Ho scelto di percorrere un’altra strada, Eve.» Parlava con dolcezza, senza ombre di rancore o supplica. A quelle parole, le dita di Evelynn si irrigidirono sopra la tastiera. Nia, nella sua testa, le ricordava di spuntare le caselle corrispondenti all’accertamento di “delirio religioso” e “rifiuto terapeutico.” Ogni voce che evidenziava era un colpo al cuore.
«Saul…» tentò di insistere lei, con un’espressione sconvolta. «Ascoltami… esistono terapie, stimolazioni. Potremmo provare a curare questa… questa fissazione. Forse non serve la sostituzione di Nia completa, potremmo…»
Lui le prese la mano, stringendola. Un gesto quieto e caldo. «Non voglio cure. Non c’è nulla da curare.» Le parole arrivarono con una semplicità che a Evelynn sembrò assurda. Gli vide negli occhi una convinzione ostinata e, allo stesso tempo, luminosa.
Un lieve fruscio nei suoi auricolari interiori annunciò il resoconto finale: tutti i test di screening avevano dato esito negativo rispetto a un qualsiasi trattamento. Le informazioni si aggiornavano sullo schermo olografico, evidenziando in rosso l’impossibilità di “ripristinare l’equilibrio psicofisico” di Saul.
Le tremarono le labbra. Sentiva i polsi deboli, e a nulla servivano le correzioni neurali che Nia le inviava. «Non è possibile… Non è possibile…» farfugliò a bassa voce, con lo sguardo basso.
Saul, invece, sembrava sfiorare appena il dramma della situazione. Con la stessa mitezza di prima, avvicinò la sedia e le poggiò una mano sulla spalla. «Non fare così. Non è colpa tua» sussurrò. «Non hai altra scelta, lo so.»
Lei scosse il capo, con i capelli che le vorticavano attorno al viso. Ma il protocollo era lì, in cima allo schermo, quasi un’ingiunzione legale: “Compilare diagnosi finale.”, incalzò Nia. Non capiva. Pochi giorni prima Nia le aveva messo in testa l’idea del bambino, di una famiglia, ed ora – ora stava incalzandola perché condannasse a morte il suo compagno. Questo pensiero, però, non prese mai forma cosciente: se lo avesse ammesso, avrebbe ammesso di aver condannato a morte dozzine di altri pazienti prima di lui. Invece, tutto ciò che rimaneva nella testa di Evelynn era angoscia, confusione, e la terribile voce di Nia.
Si prese un momento di respiro, sperando che un miracolo accadesse. Ma non vi fu alcun segnale di ripensamento, nessuna concessione. Prese un ultimo sguardo a Saul: i suoi occhi erano calmi, ma non ostili. Più che altro, rassicuranti. Come se, nonostante tutto, volesse proteggerla. Lei chiuse gli occhi, poi si costrinse ad apporre la firma digitale con un tremito che le percorse tutto il braccio.
Una breve sequenza di segnali segnò la conferma: “Compromissione irreversibile della qualità di vita. Prescrizione: interruzione vitale terapeutica.” Evelynn sentì un tonfo al petto, come un organo che si spezza. Un terzo e definitivo chiodo, che le perforava il corpo e lo spirito. Abbassò la testa, incapace di sostenere lo sguardo di lui.
Saul fece un piccolo passo verso di lei, prendendole la mano gelida. Come paziente non poteva vedere l’esito dell’esame, che avrebbe ricevuto in seguito. Ma non ne aveva bisogno: era già chiaro.
«Va tutto bene» mormorò con una dolcezza che la fece crollare. Nia, nel frattempo, si era già messa in contatto con la sezione ospedaliera, attivando procedure e protocolli per la sentenza. Ma in quella stanza, per un attimo, esistevano solo due persone che si conoscevano da sempre, e che ora si trovavano divise da una scelta che nessuna tecnologia avrebbe potuto correggere.
Il mattino seguente, il campanello suonò con uno squillo stridulo. Evelynn sobbalzò dal divano, dove aveva passato la notte in uno stato di dormiveglia tormentato. Davanti alla porta, un piccolo drone postale volteggiava con luci verdi intermittenti e un braccio meccanico che porgeva una busta sigillata. Evelynn esitò un istante, poi allungò la mano tremante e afferrò il documento.
Saul era alle sue spalle, in silenzio. Senza una parola, prese la busta, la aprì e ne lesse il contenuto. Un linguaggio freddo e impersonale riempiva il foglio, ma alcune parole gli balzarono agli occhi, crude e definitive: “Saul Kaplan… quality of life assesment… si prescrive procedura di interruzione vitale terapeutica… 31 dicembre, ore 10:00”. Richiuse la lettera con un gesto lento, come se stesse cercando di trattenere dentro di sé la follia che vi era scritta. Sapeva che, a questo punto, non poteva cambiare le cose, ed era pronto ad accettare la realtà.
Una cosa sola lo tormentava: non poter proteggere Evelynn da quell’orrore, non poterla sollevare da quella solitudine. Eppure, una strana fiducia lo calmava; sentiva come se quel compito non spettasse a lui, e come se qualcuno di cui poteva fidarsi se ne sarebbe fatto carico. Cominciò a percepire una completa quiete.
«Il 31 dicembre, Eve. Alle ore 10.» disse Saul.
Evelynn non rispose. Avvertì un’ondata di nausea, come se la realtà incombesse su di lei con una pressione insopportabile. Gli diede la schiena; si fermò qualche secondo, poi sparì nella camera da letto.
Nei giorni successivi, la casa si riempì di un silenzio innaturale, così spesso da sembrare un muro invisibile fra loro due. Saul sistemava ogni cosa con cura minuziosa: piegava vecchi indumenti, riordinava scaffali sepolti da anni di polvere, lasciava bigliettini di saluto qua e là. Oppure pregava, a bassa voce, in un angolo della stanza. Evelynn, incapace di affrontarlo, si rifugiava nella propria solitudine. Usciva prestissimo per lavorare, e tornava il più tardi possibile, con gli occhi cerchiati e la mente ovattata. Quando incrociava lo sguardo di Saul, si voltava subito altrove.
La notte del 30 dicembre Evelynn non dormì. Rimase seduta sul letto, le ginocchia raccolte al petto, lo sguardo fisso nel vuoto. Un tremito sottile le correva lungo le spalle, e a nulla servivano i sedativi suggeriti da Nia, né le sue argomentazioni.
«Saul non può guarire. L’interruzione vitale terapeutica è l’unica cosa che può farlo stare meglio. È una cura, Evelynn. È per il suo bene. È la cosa giusta.» sentiva ripetere nella sua testa; ma Evelynn era ormai così distante da riuscire a non ascoltare neppure una voce fusa con i suoi stessi pensieri.
Poteva solo aspettare un’ora che sembrava non arrivare mai, e al contempo incombeva terribile come una sentenza antica e spietata.
Il 31 dicembre si presentò come una mattina di freddo pungente. Evelynn si alzò con un senso di oppressione nel petto, una sorta di rassegnata disperazione. Saul era già pronto, seduto al tavolo della cucina, vestito con un vecchio cappotto. Teneva la schiena dritta, le mani intrecciate davanti a sé. Per un istante, Evelynn pensò di parlare, di dirgli qualcosa—qualsiasi cosa—ma il tempo scivolò via senza concederle il coraggio.
Uscirono di casa e attraversarono la strada in silenzio, salendo in macchina come estranei che si incontrano per caso. Durante il tragitto verso l’ospedale, Evelynn restò muta, concentrata sul parabrezza rigato di umidità. Nel suo campo visivo, Nia cercava di fornirle dati incoraggianti o di regolarle il battito cardiaco, ma ogni suo impulso veniva come respinto da una disperazione umana più grande di quella onnipotente ed immateriale macchina.
Arrivarono con qualche minuto di anticipo. Varcarono le porte in vetro dell’edificio, lineare e spoglio, illuminato da luci asettiche. Un’addetta alla reception chiese il nome del paziente. Fu Evelynn a rispondere, con un filo di voce:
«Saul Kaplan.»
La donna dietro al bancone sorrise in modo vuoto e inserì le informazioni nel terminale. «Sala operativa 4. La procedura è fissata fra dieci minuti. Signorina, se vuole, lei può attendere…»
«No. Io entro con lui.» La voce di Evelynn era appena un sussurro, eppure suonò decisa. La receptionist alzò un sopracciglio, balbettò qualcosa sul protocollo che vietava la presenza di parenti, ma Evelynn, senza dire altro, estrasse il tesserino ministeriale e glielo mostrò. L’addetta abbassò lo sguardo e alzò le mani, arrendendosi in silenzio.
Evelynn seguì Saul lungo il corridoio, procedendo con passi rigidi, come se fosse lei a dover affrontare la condanna. Quando entrarono nella sala operatoria, furono accolti da una luce biancastra, fredda, che proiettava un cerchio impietoso intorno a un lettino al centro. Due medici e un assistente automatizzato erano già lì, in attesa.
Saul si voltò verso di lei un’ultima volta. «Ti voglio bene, Evelynn. Stai tranquilla. Tutto questo non è che una follia passeggera: passerà, e passerà persino Nia. Ma noi…» Fece una breve pausa, come per scandire meglio le parole. «Noi non passeremo.»
Con la stessa calma irreale, si avvicinò e le sfiorò la fronte con un bacio. Un gesto che non compiva da così tanto tempo da sembrare dimenticato. Poi avanzò verso il lettino, ogni passo sembrava un battito di tamburo nella testa di Evelynn.
Lei rimase in piedi, con le braccia strette attorno al corpo, quasi a proteggersi da un mondo che le stava collassando addosso. Il suo sguardo, sbarrato, restava fisso su Saul, incapace di staccarsi da quell’immagine. Una lacrima le scivolò lungo la guancia, e le labbra si schiusero, ma nessun suono riuscì a uscire. Avrebbe voluto correre da lui, toccargli la mano, supplicarlo di fuggire insieme. Invece, restò immobile, come intrappolata in una morsa invisibile.
Saul si sdraiò sul lettino. Vide l’assistente automatizzato preparare i sedativi con gesti rapidi e precisi. Provò un’ultima, strana pace. Chiuse gli occhi mentre sentiva i farmaci entrare in circolo. Poi, la punta di una sonda alla base del cranio, il contatto freddo con l’acciaio, qualcosa che si stacca alla base della nuca, fra le vertebre. Un battito di ciglia, forse, un sospiro di resa.
Tutta l’operazione durò pochi secondi. Un suono acuto segnò la fine. Sul monitor, i parametri crollarono di colpo.
Evelynn vide le spalle di Saul rilassarsi in un abbandono definitivo. Piegò il busto in avanti, schiacciando la fronte contro la vetrata, il respiro frammentato in singhiozzi muti. Nella sua mente, Nia cercava di inondarla di comandi calmanti, mentre un medico pronunciava distrattamente: «Procedura conclusa.»
l viaggio di ritorno fu come attraversare un sogno in cui ogni cosa aveva perso consistenza. Evelynn si ritrovò a casa senza ricordare di esserne mai uscita. Chiuse la porta alle sue spalle, si appoggiò al muro con la schiena e scivolò lentamente verso il pavimento.
«Nia…» mormorò, la voce spezzata. «Fammi dormire. Fammi… dimenticare…»
«Sedazione in corso,» rispose la solita voce, con un tono che pareva beffardamente materno. In un attimo, luci morbide iniziarono a pulsare sui muri, e una musica lieve cercò di avvolgerla in un abbraccio sintetico.
Sfinita, Evelynn lasciò che i muscoli si arrendessero a quell’intorpidimento. Le palpebre si chiusero, e nell’oscurità vide solo il sorriso di Saul, quell’ultimo ricordo di vita che nessun dispositivo avrebbe mai potuto cancellare.
Il nuovo anno arrivò senza fuochi, senza cori, senza neppure un accenno di festa. Un silenzio greve avvolgeva ogni cosa, compresa la stanza in cui Evelynn giaceva, immobile, con la testa affogata nel cuscino come se volesse scomparire. Quando aprì gli occhi, un dolore sordo le serrava la nuca. Stentò a riconoscere il posto in cui si trovava: la stessa casa, eppure sembrava vuota, spogliata di qualcosa di essenziale.
Si mise a sedere, percependo ancora un bruciore agli occhi. Nella penombra, si guardò intorno, e si rese conto di essere immersa in un assoluto silenzio. Un silenzio in cui si facevano strada i ricordi, terribili, della giornata precedente.
«N-Nia?» tentò in un filo di voce.
Ma non giunse nulla.
Respirò a fondo, provando ad attivare il dialogo mentale. «Nia? Cosa succede?» La gola le si contrasse. Continuò a fissare il soffitto in attesa che qualcosa si illuminasse nel suo campo visivo, che una voce risuonasse nella sua mente. Ancora silenzio.
Si sollevò a sedere, con il cuore che iniziava a battere forte. «Nia! Diagnostica forzata!» Era la procedura standard quando l’interfaccia non rispondeva. Nessuna reazione. Neanche un tremolio, un accenno di display olografico, un vago suono digitale. La sensazione era più devastante di quanto avesse mai creduto possibile: era come se all’improvviso avesse perso uno dei suoi sensi primari.
Il silenzio rimase immutato, denso come una nebbia. Evelynn scattò in piedi, traballando. Una sensazione tremenda si impadronì di lei. Nel vuoto lasciato da Nia, i ricordi di Saul si fecero strada con prepotenza; si sentì investita da tutto il dolore e dal vuoto lasciato dalla perdita del suo compagno, e al contempo da un profondo panico: ora persino Nia la aveva lasciata.
Evelynn perse il controllo. Si mise a frugare nella stanza, rovesciando coperte, spalancando cassetti in un impulso disperato di trovare un pannello, un interruttore, qualunque cosa che potesse riattivare l’IA. Senza Nia, il vuoto lasciato da Saul le sembrava una voragine. Senza Nia, non poteva andare avanti. Il silenzio nella sua testa era troppo grande; troppo terribile; troppo profondo.
Uno spasmo di panico le serrò la gola. Urtò il comodino di Saul con la spalla, e la lampada cadde a terra con un tonfo che la fece trasalire. Insieme alla lampada, un cassetto si aprì di scatto, lasciando scivolare a terra un libro dalla copertina sciupata. Evelynn si bloccò, il respiro in affanno.
Si chinò, e con mani tremanti raccolse l’oggetto. Un vecchio libro, fuori posto nella loro casa; il titolo, in grandi caratteri dorati: La Sacra Bibbia. Evelynn trattenne il fiato, ricordando la conversazione avuta con Saul la sera in cui lui rifiutò il ripristino di Nia. Aprì le pagine con un gesto istintivo, scorrendo velocemente parole fitte, in inchiostro vecchio e quasi sbiadito.
Dopo poco, raggiunse una pagina dove era inserita una vecchia foto stampata: una foto di lei e Saul, quando erano ancora ragazzi. Il pensiero che Saul la avesse lasciata lì perché lei la trovasse, le serrò il cuore come una morsa gelida. Scostò la foto, per rivelare una pagina del libro di Isaia. Non sapeva chi fosse, o cosa significasse, ma una frase era cerchiata, e seppe per certo che era stato Saul a cerchiarla.
Le sue labbra si mossero senza emettere suono, leggendo:
“Non temere, perché io sono con te. Non smarrirti, perché io sono il tuo Dio.”
Le si annebbiò la vista. Il petto iniziò a sobbalzare in un singhiozzo che non riusciva a trasformarsi in pianto. Il silenzio intorno diventò improvvisamente vivo, come se quel vuoto fosse abitato da qualcosa di più grande di Nia, qualcosa che le sfiorava il cuore in un modo diverso da ogni algoritmo o proiezione.
Cadde in ginocchio, tenendo stretto il libro contro di sé. Non sapeva neppure cosa fosse esattamente quel “Dio” di cui Saul aveva voluto trovasse un messaggio: eppure, per la prima volta, sentiva un calore dentro, una scintilla che nasceva dal caos della sua mente. Pensò a Saul, a quel suo sorriso quieto, alla certezza con cui l’aveva guardata nell’ultimo momento.
Avrebbe voluto gridare, ma le mancava il fiato. Una lacrima tracciò un solco obliquo sulla guancia. Poi un’altra. E un’altra ancora, fino a che la sua respirazione si fece frenetica, come un animale ferito che cerca aria.
Nel vuoto della stanza, in quel mattino che doveva segnare l’inizio di un nuovo anno, Evelynn si ritrovò sola a stringere tra le braccia un testimone muto di un amore sconosciuto, lontano da ogni calcolo o controllo.
Improvvisamente, una voce le riecheggiò nella testa. Ma non era la voce di Nia: era più dolce, più calda, più vera, più umana, più conosciuta. «Ti voglio bene, Evelynn.»
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