Nell'abisso della morte, nel profondo del buio, le anime degli uomini vagano indistinte, sole, desolate. Ma le porte degli inferi sono improvvisamente scardinate; e una luce inizia a riempire la tenebra.

La Luce che le Tenebre non Possono Vincere

Questo racconto fa parte delle Lettere di Martinius. Se non conosci la serie, comincia dal prologo.

Agata, 24 Luglio. A.D. 1800.

Martinius saluta i suoi Principi ed il suo Re.

Miei amati Farwic e Malwic,
Il vostro vecchio maestro ha raggiunto Agata. Questa è una delle città più meravigliose ed antiche del nostro continente, culla della nostra cultura, della nostra sapienza e della nostra filosofia. Oggi non desidero però annoiarvi con i dettagli della architettura di questo luogo: avete infatti vicino a voi qualcuno che può raccontarvi personalmente la bellezza di questa grande capitale.

Io e vostro padre visitammo la città circa trent’anni addietro, e fu proprio in quel viaggio che diventai suo stretto confidente. Alcune storie, figli miei, è bene che accompagnino nella terra coloro i quali le hanno vissute, dunque non inquisite eccessivamente il Re per scoprire i dettagli di quell’avventura. Tuttavia vi raccomando di farvi raccontare la bellezza di queste mura, che somigliano ad una sintesi di Lavinium e Knossos, e la particolarità delle usanze di questa gente. Giacché, se le mie aspettative per questo viaggio sono corrette, sarò ad Aarburg quando anche Malwic si sarà fatto uomo, ho pensato di acquistare per voi una bottiglia di Ouzo, un particolare liquore che qui preparano con distillato di uve e infuso di spezie particolari: vedremo se, tornato ad Aarburg, l’avrò ancora con me. Diversamente, potrete chiedermene conto.

Sapete, miei cari principi, questo luogo è per il vostro maestro fonte di grande malinconia. Varcando le mura della città, sono stato assalito dai ricordi che io e vostro padre abbiamo inciso nei rispettivi cuori così tanto tempo fa; incontrare vostro zio Re Zeno II, che avevo conosciuto da ragazzino e mai più visto, mi ha riempito di una dolcezza amara e pesante, che non mi ha ancora del tutto lasciato.

Negli scorsi giorni mi sono dedicato a svolgere i miei compiti a fianco del Patriarca di Agata, Agustus: un uomo serio, preciso e ligio, molto sicuro di sé, e tuttavia piuttosto cupo nel suo atteggiarsi. Il suo aspetto fisico sembra costruito con la precisa intenzione di rifletterne il carattere: alto, magro, possiede un volto allungato con lineamenti affilati, calvo e con una lunga barba triangolare; i suoi occhi sembrano sempre giudicare il mondo in maniera severa, mostrandosi sottili fra sopracciglia abbondanti. Sebbene sia un uomo di assoluta competenza amministrativa e grande saggezza, nonché impeccabilmente fedele alla santa dottrina, non posso certamente dire che la sua compagnia abbia giovato al mio stato d’animo.

In effetti, sembra che la mia permanenza in questo paese debba essere segnata proprio dalla malinconia. Quest’oggi abbiamo visitato il Grande Seminario, una meravigliosa scuola ecclesiale, fra le più grandi e rinomate del continente, seconda solo al Magisterium di Lavinium. È un edificio imponente, con uno stile rigido e massiccio che un po’ cozza con il resto della architettura di Agata, ricordando più le grandi cattedrali dei paesi del nord: grandi guglie, vetrate imponenti, archi slanciati e sovrabbondanti intarsi nella pietra. In effetti, è meno antico del resto degli edifici storici della città, poiché fu raso al suolo durante la Seconda Guerra degli Stregoni, e ricostruito solo un centinaio di anni addietro. La scuola in sé, invece, è esistita in varie forme da prima ancora che il nostro Signore visitasse il Suo mondo: nacque come il più antico centro di filosofia e scienze naturali del continente.

Fra le mura di questo edificio vengono formati giovani indirizzati al sacerdozio o al monachesimo, ma anche laici dediti allo studio della filosofia o della teologia. Molti di coloro che hanno studiato in questo luogo sono poi indirizzati ai patriarcati di tutto il continente, destinati a diventare importanti membri della nostra Chiesa. La scuola è sotto il controllo congiunto della Chiesa e della corona di Ilion, ed in effetti, lo scambio di studenti tra questa sede ed il nostro Tempio fu parte dell’accordo che vostro padre strinse con Re Zeno trent’anni fa.

Se già non lo sapevate, dovreste averlo intuito. È qui che Elena, la vostra amica novizia del Tempio della Fiamma, ha mosso i primi passi nei suoi studi. Ed è tramite la reminiscenza di quando Elena arrivò, tre anni addietro, che la desolazione si preparava ad assalirmi nuovamente. Può darsi che abbiate dimenticato le esatte circostanze del suo arrivo: Malwic in particolare era piuttosto giovane, ed entrambi badavate poco alle faccende degli adulti.

Che lo ricordiate o meno, comunque, Elena era parte di un gruppo di sette giovani novizie e sette giovani iniziati, quattordici in totale. Alla guida del gruppo vi era una donna anziana, di nome Ilda. Essa era, a quel tempo, una delle monache impegnate in questa scuola, ed era una donna incredibilmente brillante. Era anziana, ma bella, tremendamente affascinante; coltissima, esperta in ogni cosa: dallo studio delle pietre e dei cristalli, alle erbe, alla natura del corpo e della fisiologia femminile. Scriveva poesie e preghiere, e addirittura drammi, racconti e persino musica.

Conosceva le lingue, moltissime; persino la nostra, e come mi colpì conversare con lei in lingua volgare. Solitamente, fra chierici, usiamo la lingua sacra, che è conosciuta in tutto il continente, ma lei sapeva ogni lingua comune. Ho appreso qui che si vociferava avesse persino ideato un idioma proprio, con cui scriveva messaggi alle sue novizie, per il diletto di confondere i superiori di questo ufficio. Molti sospettavano che la sua scienza le fosse ispirata, tanto era profonda: i suoi amici dicevano che le fosse donata dal Signore in visione mistica, i suoi nemici, che le fosse stata venduta dal maligno.

In ogni caso, Ilda era una donna incredibile, con delle doti davvero difficili da spiegare. Stette con noi circa una settimana, prima di tornare a Ilion lasciando presso di noi i suoi novizi, tra cui Elena.
Vorrei dire che in quella settimana la conobbi bene, ma vi sono persone che sono così inesauribili da non poter essere conosciute in una vita: lei era una di queste.

Nei mesi successivi le scrissi, diverse volte, chiedendole la sua opinione su questo o l’altro tema. Non mi rispose mai, nemmeno a una lettera. Pensai allora che fosse una donna non solo eclettica ma anche eccentrica, e che fosse plausibile che io la avessi incuriosita meno di quanto lei avesse incuriosito me; o che avesse avuto chissà quale altro imperscrutabile motivo per non darmi risposta. Anche Elena, però, le scrisse – le era molto affezionata – e nemmeno lei ricevette risposta, e questo mi parve strano.

Tuttavia, passeggiando fra i corridoi della scuola, la memoria di lei mi soggiunse chiara e affettuosa, e mi parve che fosse l’occasione buona per chiederle conto della sua indifferenza. Chiesi allora al Patriarca di poterla incontrare. Egli si fermò e mi guardò con una espressione bizzarra, tradente un vago accenno di amarezza. “Ilda è morta.” Mi disse, molto seccamente. “Pensavo vi fosse giunta notizia. Si ammalò durante il viaggio in nave, di ritorno dal Tempio della Fiamma di Aarburg, tre anni fa. Spirò al largo di Kyeros, l’approdo più a nord. Ci raggiunse solo la sua salma.”

Potete solo immaginare il mio dispiacere, già predisposto com’ero alla malinconia. Lascio a voi, miei principi, l’ingrato compito di portare la notizia a Elena. Tuttavia, che terribile sconfitta, amati ragazzi, è la morte. Io non riesco a capacitarmene, e vi dico che non possiamo – e non dobbiamo – rassegnarci ad essa, accettarla come una inevitabilità; mai. Farlo, toglie ad essa tutto il suo terribile significato, e toglie alla nostra fede tutta la profondità della sua grazia.

Ogni volta che qualcuno dei nostri amati ci abbandona, risentiamo le stesse frasi di circostanza: “era anziano”, “ha comunque vissuto una degna vita”, “ora ha cessato di soffrire”. Sappiate, ragazzi miei, che questi sono pensieri assurdi da fare, e nascono dalla incapacità di accettare la verità della morte. Tanto è che quando a morire, come troppo spesso accade, è un giovane, queste frasi sono sostituite dal silenzio attonito ed inebetito.

Quando siamo costretti a confrontarci con la nostra totale impotenza di fronte alla finitudine della vita, cerchiamo di razionalizzare tale avvenimento considerandolo come inevitabile, giunto al tempo opportuno, addirittura liberatorio. Un simile ragionamento non è che una sciocchezza da codardi, un fuggire davanti a ciò che dovremmo ammettere con coraggio: la morte è una tragedia, la morte è una ingiustizia, sempre e comunque, per il giovane e per il vecchio, per il malato ed il sano; la definitiva sconfitta di tutto ciò che siamo stati.

Che scopo ha avuto ogni sorriso, ogni lacrima? Che valore può avere lo scegliere il male o il bene, ed il soffrire o godere di questa scelta, se tutto è reso eguale dal comune fato di ogni uomo? Per lo stolto, che in nulla si è mai affannato, ed il saggio, tanto indaffarato a rivelare i segreti del cosmo, è preparato il medesimo destino. L’angelo pallido bussa egualmente alle case dei miseri, come alle torri dei Re, ed esso inghiotte tutto: la memoria di un uomo è morta anch’essa dall’istante in cui ne è morto il corpo, e non ha la forza di resistere all’oblio che la divora; forse dura sessant’anni, forse trecento, sia pure mille per i grandi Re: ma inevitabilmente si estingue.

La morte sottrae ai giusti la loro ricompensa, ai malvagi la loro punizione. Perché vi affannate, figli miei? Perché studiate, e crescete nella rettitudine? Nessuno, fuorché qualche erudito ed i suoi polverosi volumi ricordano più se il settimo o l’ottavo Re di Aarburg siano stati realmente retti o crudeli, pochi ne ricordano i nomi. Ed anche se fosse, che importanza ha per coloro i quali sono nel sonno eterno? Avete forse la forza o la capacità di sottrarvi a questo destino, di ottenere da voi stessi la vita eterna, inseguendo i vaneggiamenti di cui furono ossessionati per secoli gli stregoni, gli alchimisti?

Quale giustizia vi è nel fatto che una donna come Ilda, così meravigliosa, e radiante scienza e gioia per chiunque le stesse attorno, ci sia tolta in questa maniera, senza una spiegazione, senza un addio, senza una parola di conclusione e di commiato?

Noi siamo bene coscienti di tutto questo, eppure cerchiamo di fuggirne in ogni momento la consapevolezza. Con spasimo continuo ricerchiamo ogni possibile distrazione, ogni fuga della mente che possa distogliere gli occhi dal baratro cui siamo inevitabilmente diretti. Io vi dico però di avere il coraggio di guardare invece l’abisso della Disperazione, guardarlo a lungo; saggiarne l’invincibile profondità. Poiché solo se apprezziamo a fondo il significato di questo buio, di questo vuoto fra i vuoti, possiamo comprendere la portata della grazia che ci è fatta dal nostro Re.

Se la Disperazione è dunque la conclusione inevitabile della nostra natura di uomini, miei principi, noi diciamo invece che la Speranza è una virtù che proviene dal Signore. E come può essere diversamente? Se la speranza è la sicurezza, la fiducia convinta e risoluta nell’inevitabile trionfo del bene, come può possederla l’uomo che è senza Dio? Noi guardiamo il mondo, e vediamo che giusti e maligni ugualmente muoiono. I torti vengono sepolti dall’oblio e mai sanati; mai è il bene compensato. Tutto si sgretola, tutto si disgrega; La speranza, per coloro che non attendono con fiducia il Nuovo Regno, non è altro che una vana follia; un insensato ottimismo, più e più volte umiliato dalla crudeltà della Storia.

È solo capendo e apprezzando questo che potrete gustare la grandezza del dono che Colui che ci ha dato la Vita, ci ha elargito. Noi diciamo che morendo, Egli ha sconfitto la morte: ci ha offerto una vita eterna in Lui.

Ma capite ora che questo non può essere considerato solo il prolungamento indefinito dei giorni vuoti ed insignificanti, che prima, vivevamo nella morte. Invece il dono della vita eterna ha vivificato e caricato di significato e valore ogni istante che ci è dato di gustare nella vita mortale, nel nostro cammino nel tempo. Lo ripeto: nell’accoglierci nella Sua casa eterna, Egli dà vita e valore ad ogni nostra scelta, ad ogni nostro respiro, ad ogni nostro passo; nulla è poco significativo, perché di tutto ci sarà chiesto conto, di tutto vi sarà memoria: dei nostri successi, delle nostre cadute, di tutte le infinite volte in cui Egli ci ha elargito il Suo perdono.

Dove è, ora, il tuo pungiglione, o morte? Esso non può ferirci, poiché siamo carne nuova; come può l’abisso spaventare noi, a cui è stato donato di camminare sul vuoto senza sprofondarvici?
Dunque è in questa Verità, e non in futili distrazioni, che dovete porre il vostro cuore: nel dono di questa grande e definitiva Speranza.

Essa che ci consente di guardare la morte con onestà ed ammettere che sì, la morte è la nostra definitiva e più umiliante sconfitta, il più crudele e infido dei tiranni; ma al contempo possiamo proclamare che questo tiranno è stato rovesciato: la sconfitta è a sua volta abbattuta.

Allora non abbiate timore né di fronte alla vita, né di fronte alla morte. Gustate la libertà che vi è data: di poter seguire il bene; sempre; convintamente. Potete farlo sicuri che qualsiasi cosa questo vi porti o vi neghi sia infinitamente compensata dalla Luce che attende il giusto. Giovani principi, voi non dovete affannarvi per inseguire la gloria, la ricchezza, l’onore, tralasciando il bene. Seguite invece quest’ultimo, e le altre vi saranno date in misure ricolme e traboccanti.

Queste considerazioni ovviamente non bastano al mio animo per non soffrire della morte di Ilda, per non desiderare di poter conversare con lei ora, senza attendere oltre. Ma se bastassero, non perderebbero in questo una parte della loro potenza?

Per questo consentirò alla malinconia di avere il suo gioco ancora per qualche giorno. Scoprirete, invecchiando, che pure la tristezza ha una sua dolcezza; e che è molto più ricco l’uomo che si sente affranto, dell’uomo che si sente vuoto.

Ciò detto, nelle prossime settimane, sarò piuttosto indaffarato. Mi muoverò attorno alla capitale per qualche giorno, per valutare l’organizzazione delle comunità interne al Patriarcato di Agata partecipando personalmente a qualcuno dei riti e delle iniziative locali. Poi visiterò, assieme al Patriarca Agustus, Kyeros, una importante città costiera oltre il confine di Teokonos, ove ha sede il Patriarcato Speciale del Mare Medio, che ha giurisdizione su tutte le isole. Infine partirò verso occidente, passando per Iacintus, la capitale di Teokonos.

Come vi dicevo, sono tre i patriarcati di questa regione; una concentrazione inusuale, ma che ha ragioni storiche molto antiche. In tutto, comunque, starò nella regione meno dei due mesi che avevo inizialmente previsto, anche per via dell’encomiabile amministrazione di Agustus. Ho l’impressione di non avervi trasmesso di lui una immagine particolarmente lusinghiera; sappiate che è un uomo difficile, ma incredibilmente abile. Se mai giungerete in Ilion, e lui sarà ancora qui, vi raccomando il suo aiuto. Infatti la competenza, miei principi, è una virtù ed un dono fra i più importanti.

Troppo spesso siamo veloci nel giudicare gli uomini in base alla nostra istintiva amicizia od inimicizia, trascurandone le qualità profonde. Così mettiamo al nostro fianco stolti ed incapaci, solo in virtù della loro simpatia o adulazione: e questo è un errore fatale, specie per coloro che, come voi, detengono una posizione di potere. Se un cieco si affida, apprezzandone la voce soave, ad un altro cieco, entrambi finiscono nel fosso: circondatevi dunque di uomini tediosi ed insoffribili, purché capaci di guidarvi rettamente e consigliarvi con giustizia e capacità.

Con questo, e con un affettuoso saluto, vi lascio. Se vorrete scrivermi, potete indirizzare la missiva ad Agata, purché la scriviate tempestivamente; o a Iacintus, dove passerò il mese venturo.

Con amore profondo,

Martinius Wyss.


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