Questo racconto fa parte delle Lettere di Martinius. Se non conosci la serie, comincia dal prologo.
Knossos, 8 Luglio. A.D. 1800.
Martinius saluta i suoi Principi ed il suo Re.
Miei amati Farwic e Malwic,
Il vostro vecchio maestro ha toccato terra e, fortunatamente, non riprenderà il mare per lungo tempo. Vi scrivo da Knossos, Porta dell’Occidente, l’ultimo approdo prima che il Mare Medio si mescoli con l’invitto Oceano del Sud.
Il viaggio da Samara è durato un poco più del previsto. Abbiamo infatti deciso di allungare la traversata risalendo verso nord, da dove eravamo arrivati, evitando così sia le acque territoriali di Ishmael, sia la bocca dell’Oceano. Siamo giunti a Knossos dall’interno, confidando nella maggior tranquillità del Mare Medio. Si è rivelata una scelta prudente, poiché tra il quarto e il quinto giorno di navigazione il tempo è peggiorato in una burrasca, che siamo fortunatamente riusciti a superare quasi indenni. Se avessimo intrapreso la rotta oceanica, dove le onde riescono ad alzarsi più del doppio rispetto a quelle delle acque interne, lo stesso fortunale avrebbe potuto farci perdere molto più che qualche ora sulla tabella di marcia.
Credete, miei principi, che per un uomo di terra come me, l’esperienza sia stata piuttosto impegnativa, per così dire. Non fosse stata per l’ostentata sicurezza del capitano, avrei disperato per la mia vita. Egli invece è rimasto ritto sul ponte come se vi fosse inchiodato, persino nel culmine del putiferio. Quasi pareva, a guardarlo, che la pioggia sferzante non fosse che un miraggio.
Comunque, siamo approdati. Due dei miei inservienti hanno però riportato lievi ferite durante la lotta con gli elementi, e uno ha probabilmente subito una lussazione. Ci fermeremo dunque qualche giorno qui, così che possano riposare e ricevere cure adeguate. Knossos è una città ricca, ed è uno snodo commerciale piuttosto importante. Di qui passano molte merci e persone, soprattutto coloro che intraprendono la rotta oceanica per l’oriente, o che dall’oriente viaggiano verso Lavinium o Bastille. È il luogo migliore per rifocillarsi, fare provviste e trovare le cure di un buon cerusico per i miei consunti accompagnatori.
La bellezza, a cui come sapete sono affezionato, non manca nemmeno qui. La città è come scavata nella scogliera. Un nugolo di viottoli vertiginosi si arrampica sulla costa, partendo dal porto, che è composto da lunghe banchine in pietra. Tutto è in una bianca pietra porosa, probabilmente di origine vulcanica, e la muratura ricorda un po’ quella di Lavinium. L’architettura delle case è però molto particolare. Sono frequenti sezioni a pianta tonda, e gli angoli delle costruzioni sono spesso smussati, il che mi sembra conferire alla città un aspetto quasi buffo, rispetto alla rigidezza della nostra architettura. I tetti, quando non sono terrazzati, hanno forma a cupola e sono dipinti con un azzurro pallido ricavato da un corallo tipico di questa zona, il che completa il quadro piuttosto inusuale di questo particolare luogo.
Comunque, la gente è accogliente e serena. Il clima è totalmente diverso da quello che si respirava a Samara: non si percepisce alcuna tensione. D’altro lato avviene, cari principi, che se dalla sofferenza spesso sboccia il rigore, dal benessere affiora il lassismo. Mentre vi scrivo, si avvicina la sera, e già le vie si riempiono di persone inebriate che si accalcano nei pressi delle locande. L’aria viene inondata da un vociare allegro e distratto, accompagnato dall’odore di pecora arrostita — che gli abitanti di Ilion salano in acqua marina per poi cuocerla infilzata in particolari spiedi.
Non vi è nulla di male, in verità, in questo clima festivo, e molti fra il mio seguito sembrano beneficiarne parecchio, specie dopo le difficoltà del viaggio. Ma il mio cuore è già proiettato al prosieguo della mia impresa, che continuerà verso luoghi per cui ho, purtroppo, poca simpatia.
Lasciata Ilion, infatti, non passerà molto prima che io mi trovi a viaggiare attraverso il Regno di Hermann-Velasquez e, poi, la Repubblica di Bastille, un luogo i cui costumi non suscitano in me alcun gentile giudizio; e mi auguro che essi non abbiano intaccato anche l’integrità del Patriarcato.
Sicuramente è questa preoccupazione a rendermi più rigido e severo del dovuto. Knossos, nonostante sia più lasciva dei luoghi ove ho iniziato il mio viaggio, è comunque una città dove sopravvivono forti le sane e sante tradizioni. Badate, miei principi, che qui, al sud del mondo e ai piedi del Mare Medio, affondano le radici di tutta la nostra civiltà. I più grandi pensatori dell’occidente hanno avuto i natali in Ilion, e qui trovano la loro origine molti dei miti che ancora innervano il nostro modo di pensare e sognare, raccolti nei più grandi poemi che la nostra metà del mondo abbia prodotto.
Ilion è la terra degli eroi, dei grandi campioni delle guerre dell’antichità, degli stregoni. Passeggiando fra le strade e incontrando qualche piccolo tempio dedicato a un Eido — il loro culto qui ancora sopravvive — sembra quasi di essere immersi in quel tempo remoto, quando gli dei minori camminavano fra gli uomini. I protagonisti degli antichi miti di queste terre, comunque, più spesso che gli Eido sono proprio gli uomini: uomini esemplari e coraggiosi, capaci, a distanza di millenni, di ispirare e motivare i giovani.
Stamattina, quando approdammo, risalimmo il molo verso l’ufficio portuale. Dove le banchine si staccano per procedere verso il mare, vi è una grande piazza e, al centro di essa, sorge un’enorme statua, realizzata nella stessa pietra leggera con cui sono costruite le case della città. Raffigura una bestia marina abominevole, gigantesca, dotata di dodici tentacoli, che si avvinghia su sette uomini armati solo di fiocine di bronzo, del tipo utilizzato per pescare. Un’altra statua, raffigurante una donna bellissima e leggermente distaccata dal resto della composizione, osserva la scena come congelata in un gesto simile a un canto. Alla base dell’opera vi è una targa d’oro massiccio. Incisa, nella lingua di Ilion, compare la dicitura: «I Sette Eroi e la Vergine di Knossos.»
Forse perché la memoria di ciò che ho vissuto a Samara è ancora vivida nella mia mente, mi sono trovato a interrogarmi su cosa definisca un eroe. Prima di condividere il mio pensiero con voi, però, lasciate che vi racconti la storia di questi Eroi di Knossos, che un vecchio mendicante è stato ben felice di spiegarmi in cambio di una moneta.
La storia — o la leggenda — è questa. Duemilaseicento anni fa, prima ancora che il nostro Signore graziasse il mondo con la Sua presenza, Knossos non era lo snodo commerciale che è oggi, posto a collegamento dell’occidente e dell’oriente. Vi era solo un piccolo villaggio di pescatori, uomini umili e modesti, dediti alla sussistenza. Fra questi nacque una ragazza di nome Kersos, che crebbe per diventare una vergine bella oltre ogni immaginazione. I suoi capelli erano come filigrana d’oro, i suoi occhi blu scuro, profondi come il mare; le sue forme piene e armoniose come la più perfetta delle statue. La fanciulla era inoltre graziata da una voce cristallina, che incantava ogni uomo la ascoltasse, e soleva dilettarsi nel canto.
Ogni giorno si recava alla scogliera e, pregando il mare di concedere a Knossos una pesca abbondante, lo blandiva con il suo canto. Accadde così che una bestia marina si invaghì della giovane e la prese con sé, conducendola attraverso l’oceano sino all’oriente, sull’isola che oggi viene chiamata, appunto, Kersos, e che, pur essendo dominio degli Ismaeliti, è abitata principalmente da gente di Ilion.
All’epoca, quell’isola era inabitata e deserta: la perfetta prigione per una principessa in balìa di un mostro.
Il villaggio fu sconvolto dalla scomparsa di Kersos, gioia di tutto il popolo. Nessuno però osava sfidare la bestia, talmente massiccia e orrenda da parere imbattibile. Ciò non migliorò in alcun modo la situazione, poiché, col passare del tempo, il mostro divenne sempre più arrogante. Sentendosi invincibile e ossessionato dall’idea che qualcuno potesse rivendicare la fanciulla, iniziò persino ad aggredire le barche dei pescatori, cosicché nessuno potesse più prendere il mare.
La città presto cadde nella fame, eppure ancora nessuno osava sfidare l’abominevole tiranno degli abissi.
Fu allora, nel momento più disperato, che sette giovani decisero di affrontare la bestia una volta per tutte. Armati di nulla più che una fiocina da pescatore, presero il largo sugli ultimi flebili pescherecci rimasti e andarono incontro alla creatura. La lotta si protrasse sul mare per sette giorni e sette notti, a tal punto che i guerrieri persero coscienza di dove si trovassero e furono trascinati dalla marea e dalle intemperie, con le loro imbarcazioni, sino alle rive di Kersos. La giovane, vedendo dalla scogliera i bei giovani straziati dal demonio marino, cantò disperatamente al mare, implorandolo di intervenire. E tanto meravigliosamente cantò che l’Oceano non poté restare indifferente.
Le acque si infuriarono e volteggiarono intorno alla creatura, impedendone i movimenti: e i giovani eroi, pur allo stremo delle forze, colsero l’occasione per abbattere finalmente la terribile bestia. Poi, troppo logori e stanchi per sopravvivere, sprofondarono definitivamente negli abissi assieme al mostro. L’Oceano, commosso dal pianto amaro di Kersos, giurò che mai più avrebbe permesso a uno dei suoi figli di ferire la gente di Knossos, e promise a quel popolo di pescatori il suo eterno favore. Muovendo il suo gigantesco corpo, condusse la giovane a casa a bordo di una grande foglia di palma, e il villaggio festeggiò il suo ritorno per sette giorni, offrendo bestie grasse in sacrificio al mare.
Da allora, una corrente favorevole collega l’ovest e l’est, guidando senza fatica le navi lungo la rotta oceanica da Knossos sino a Kersos, e così la prima è divenuta un porto tanto influente e ricco, ove molte delle rotte che dall’occidente portano all’oriente devono passare.
Certo, potrebbe sembrare soltanto una fiaba. Alcuni sostengono persino che la bestia e l’Oceano siano la stessa entità e che questa storia alluda in qualche modo all’evoluzione della tecnica navale. Queste razionalizzazioni non aggiungono nulla alla verità del mito e, francamente, non mi interessano. Pensate però, miei cari principi, a quei giovani eroi, armati di null’altro che una fiocina e immortalati per sempre nella pietra. Qual è il loro vero fascino?
Credete, non deriva tanto dall’aver compiuto il bene, quanto dal non aver eluso il male.
Infatti, il bene può essere fatto da chiunque abbia ricevuto un minimo dono dal destino. Chiunque può donare qualche cosa, sollevare un infermo, aiutare un vecchio, curare un orfano. Non fraintendetemi, nulla intendo togliere alla nobilità di queste azioni: ma se tali opere sono espressione di un animo buono, ma non bastano a definire un animo eroico.
Ripeto, l’eroe non è definito da gesti di bene, ma dalla capacità di accettare il male e di perseverare di fronte ad esso. I giovani che presero il mare per salvare la loro Knossos e la bella Kersos sapevano che sarebbero morti; tuttavia, accettarono il loro destino con determinazione, consci che, malgrado tutto, quell’impresa fosse giusta. Avrebbero potuto sottrarsi al pericolo, se lo avessero voluto. Knossos avrebbe forse potuto sopravvivere migliorando la propria agricoltura e dimenticando il mare, e alla bella Kersos sarebbe potuta succedere, prima o poi, un’altra dama ancor più delicata. Ma per l’onore della città e la salvezza di quella ragazza innocente, i giovani non avanzarono scuse e affrontarono il proprio fato.
Ecco, questo è ciò che definisce un eroe: andare oltre ciò che è ragionevolmente richiesto, accettare il rischio, il dolore e persino la morte per un frammento di giustizia, anche quando la bilancia penda completamente in favore della fuga. E questa è l’estrema espressione di quella nobile accettazione della propria pira di cui vi ho scritto da Samara.
Vi chiedo inoltre, miei principi: chi pensate che sia il più alto fra tutti gli eroi? Già ve ne ho parlato nella lettera inviata da Samara. Il nostro Signore e Dio, che accettò l’umiliazione nella carne, le percosse e perfino la morte di rogo, pur non avendo alcuna obbligazione a subire tanta calunnia in nostro favore, è il più grande e il più alto degli eroi immaginabili. Cari principi, sappiate anche questo: gli eroi vincono sempre. Vi è qualcosa di mistico che impedisce a chi offre l’ultimo e più profondo dei sacrifici di risultare sconfitto; e così come il nostro Signore vinse gli inferi e la morte e dalla cenere risorse come una fenice, altrettanto ogni eroe è trionfante, perfino nella sua ultima ora. E così, dopo duemila anni, io oggi ho contemplato la gloria di quei giovani, eroicamente morti, ma non sconfitti.
Miei principi, non pensiate che io desideri questo da voi. Spero anzi che la nostra amata Aarburg goda sempre di pace e prosperità. Non tutti siamo, per fortuna, chiamati all’atto eroico. Se mai il destino mi ponesse nella situazione di dover scegliere fra Lui e la vita, confesso che persino io dubiterei della forza del mio cuore.
Eppure non possiamo che guardare con profonda ammirazione a questi eroi, i quali — dalle favole, dai miti, ma anche dalla storia non troppo lontana — ci parlano e ci spronano. Ecco, miei principi, questo è il mistero: siamo chiamati a pregare tanto affinché avvenga il meglio, quanto a essere pronti a compiere ciò che è giusto di fronte al peggio.
Non c’è dono più grande che possiate ricevere dal nostro Dio della fortezza di affrontare, con volto fiero e petto gonfio, il male, accettando anche il più disperato dei destini pur di difendere il più piccolo barlume di luce. Questo è l’onore dell’Eroe, e questa è la massima delle nostre aspirazioni.
Con questo vi saluto. Vi scriverò ancora a breve — prima ancora che possiate ricevere questa lettera — da Agata, capitale di Ilion. Conto di partire per raggiungerla non appena il mio equipaggio sarà pronto, al più fra dieci giorni. Lì sosterò almeno un paio di mesi, visitando i tre patriarcati tra Ilion e Teokonos, prima di ripartire verso ovest.
Nel frattempo, vi mando i miei saluti e tutto il mio affetto.
Con amore profondo,
Martinius Wyss.
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