Questo racconto fa parte delle Lettere di Martinius. Se non conosci la serie, comincia dal prologo.
Agata, 17 Luglio. A.D. 1800.
Martinius saluta il suo Re.
Mio signore Re Arwic,
Mio dolce amico. Entrando ad Agata non ho potuto fare a meno di cedere alla commozione, sopraffatto dai ricordi della nostra perduta giovinezza. Nella mia scorsa lettera, promisi ai principi che avrei scritto loro appena giunto qui, nella capitale, ma il mio cuore ha preteso invece che mi rivolgessi direttamente a voi. Non desiderò però, amico mio, che i principi conoscano questo lato della mia persona che solo a voi è noto; vi prego dunque di celare questa missiva ai giovani Farwic e Malwic; a loro scriverò nei prossimi giorni. Il mio soggiorno ad Agata, comunque, probabilmente non sarà breve, ed è possibile che riusciate a raggiungermi con una vostra lettera prima che io mi allontani di qui.
La città, mio Re, è come probabilmente la ricordate. Stamattina, ho varcato le gigantesche colonne della pylē ōkeanós, l’entrata monumentale della città. Le statue degli eroi di Ilion troneggiano ancora dai pilastri, trenta o quaranta piedi sopra il passaggio dei pellegrini, e sembra che in ogni momento debbano essere richiamate ai Cieli. Percorrendo la via a cavallo, io e la mia compagnia provammo tutti lo stesso senso di ammirazione e costernazione che sentimmo forse noi quasi trent’anni fa, quando l’attraversammo assieme. Come fu allora, il sole era alto e potente, e guardandomi attorno un po’ accecato dal suo bagliore mi è parso quasi di vedervi a cavallo davanti a me, agghindato della stessa divisa principesca che portavate allora.
Agata è ancora bella, luminosa, grande. Mi rendo conto ora di quanto somigli a Lavinium: eccetto le case e gli edifici più popolari, che ricordano lo stile dell’Ilion meridionale, che già ho descritto nella mia precedente lettera, tutto è realizzato in una architettura classica, imponente, finemente decorata. Il materiale privilegiato è la stessa pietra vulcanica di Knossos, ma è molto comune anche il calcare bianco e persino il marmo, lo stesso marmo così impiegato nella Città Eterna; e come la Città Eterna, Agata sembra un grande giardino: rampicanti e aiuole adornano le strade ed i bordi di tutte le case, creando giochi di colori dove l’opera dell’uomo e della natura si intreccia in maniera armoniosa. Seppure il mare sia distante, si percepisce ugualmente l’odore del sale, mischiato a profumi di spezie ed incensi, uniti a quelli meno nobili della vita quotidiana: il pane del mattino, la frutta, le carni ed i formaggi del mercato.
I timpani degli edifici pubblici, dei templi e delle case più ricche sono tutti adornati da bassorilievi con scene prese dai miti dei tempi andati. Ben cinque volte, ho riconosciuto rappresentazioni della lotta dei Sette Eroi di Knossos, di cui ho appreso la settimana scorsa, approdato a Ilion. Il sentimento religioso di Agata è ancora comunque molto influenzato dalla venerazione degli Eido: non è raro vedere icone del Tempo, del Focolare, della Folgore – che a Lavinium, dove è più comune il culto dei santi, o a Samara, così devota alla Sacra Fiamma, sono quasi inesistenti. In effetti, la città è costellata di piccoli santuari dedicati a questi dei minori, e mi chiedo come il Patriarcato trovi le risorse di mantenerli tutti.
Tutto questo, mio Re, probabilmente lo ricordate ancora. Poco è mutato della città o dei suoi usi. Le persone che conoscemmo allora, invece, sono cambiate o sono passate.
Giunto in città, mi sono diretto al palazzo reale, desiderando approfittare del mio passaggio per portare gli omaggi a vostro cognato. Ammesso in udienza al Re, confesso di aver avuto un secondo cedimento alla malinconia, seguendo a quella dolcezza che, varcando la porta della città, mi ha afferrato il cuore. Un uomo sui cinquant’anni, esperto, autorevole e segnato dalle fatiche del comando mi ha accolto calorosamente, venendomi incontro dal trono di Agata. Solo il suo sorriso, ancora animato da un residuo di luminosa fanciullezza, mi ha impedito di dubitare della sua identità.
Quando visitammo Agata Zeno era poco più che un moccioso, irruento, scalmanato e sorridente, con ispidi capelli neri e alto forse quattro piedi. Oggi ho conosciuto Re Zeno II, un uomo dai capelli già leggermente ingrigiti, alto e possente, e credete che vederlo così nobile e cresciuto di persona, agghindato nei paramenti regali, mi ha d’improvviso fatto rendere conto della verità di tutte le missive giunte a corte in questi lunghi anni. Re Zeno I se ne è davvero andato, e quel fanciullo che conoscemmo tanti anni fa è davvero il degno Re di Agata.
Ricordo come fosse ieri il giorno in cui varcammo la stessa soglia della sala reale, trent’anni fa. Anche voi, seppur un po’ meno di Zeno, eravate molto giovane, nemmeno trentenne. Io, che i trent’anni li avevo superati da poco, ero vostro cappellano, e, pur essendo per la verità solo poco meno scalmanato di voi, vostro confessore e direttore spirituale.
Vi ricorderete certo che, accolti da Re Zeno I, dovemmo ascoltare con reverenza ed in ginocchio i proclami degli araldi, che annunciavano la rinnovata amicizia dei regni di Ilion e Aarburg. L’alfiere che ci accompagnava proclamava con fare pomposo gli intendimenti dell’incontro, spiegando come, dal nostro viaggio, sarebbe nata una alleanza duratura, una amicizia di commercio, di difesa, e persino di spirito, fra le nostre nazioni. Devo certamente sbagliarmi, ma la memoria sembra suggerirmi che continuarono a declamare vacuamente per dieci o venti ore, e solo il Re mi parve avere la temperanza di ascoltare senza scomporsi per tutta la durata della loro proclamazione.
Quando l’udienza fu terminata, ci congedammo e ci ritirammo agli alloggi a prepararci per la cena, e giunti lì, ricordo che mi chiedeste con fare disperato di ascoltare la vostra confessione. Vi seguii nella camera d’onore dove alloggiavate, e lì cominciaste: «Padre Wyss, le devo confessare una grave colpa. Non ho ascoltato alcuna delle parole degli araldi».
Pensai che anche io mi ero arreso molto rapidamente alla noia, ma non ebbi coraggio di interrompervi. «Non ho potuto evitare di distrarmi,» continuaste, «La figlia del Re, che stava alla sua sinistra, era tanto bella che non ho potuto guardare altrove. Le mie orecchie sentivano pur parlare il Re e gli araldi, ma la mia mente ascoltava solo il desiderio del mio cuore per quella ragazza meravigliosa!».
Vi diedi la assoluzione. Quando vi alzaste per dirigervi verso il vostro alloggio, però, dovetti fermarvi: il mio cuore mi impose confessarvi che ero colpevole dello stesso vostro peccato. Vi dissi con vergogna che avrei dovuto cercare a mia volta un prelato di Agata, al quale anch’io ammettere la colpa di cui ero complice. Non scorderò mai la dolcezza della vostra risata! Fui per un attimo rammaricato per aver perso un poca della mia autorità, ma capii presto di aver guadagnato qualcosa di più grande. Da allora ebbi l’onore di essere trattato da voi non più tanto come un ingessato prete, ma come un amico; l’unico ed il solo amico autentico di cui ebbi mai bisogno.
Mio dolce Re, quest’oggi, a fianco di Re Zeno II, non vi era alcuna bella giovane. Invece il Re era assistito da un uomo canuto, alto, magro ed ossuto: era il Patriarca di Agata, Agustus, che conoscemmo anch’egli, come un semplice prelato, trent’anni fa. Per la verità, io non ricordavo di lui – ma lui ricordava bene di noi, e per dire il vero mi è parso avesse un ricordo meno lusinghiero rispetto a vostro cognato. Ad ogni modo, ho avuto la possibilità di conferire con entrambi. Con il Patriarca, inizierò il lavoro domani, ma ha voluto farmi molte domande: sulla situazione nella Città Eterna, sul Tempio di Aarburg, e sui novizi di Ilion ospiti al Tempio della nostra capitale.
Il Re, invece, mi ha chiesto a lungo di sua sorella, la Regina Anna. Gli ho raccontato di come ella sia stata la più nobile e forte delle regine sino al giorno in cui ci ha lasciato, dei suoi valorosi nipoti con gli stessi capelli corvini, di come Malwic somigli a voi, e Farwic al nonno. Egli mi ha in cambio raccontato molti aneddoti che, senza dubbio, farebbe piacere sentire anche a voi; e mentre il re parlava, il mio cuore si riempiva di un sentimento inusuale: un frammisto di nostalgia e sorpresa, e mi trovai a riflettere sulla stranezza del nostro rapporto con il passare dei giorni.
Noi uomini, mio signore, siamo perpetuamente a disagio nel tempo. Esso ci sembra sempre sfuggire, sorprenderci, e colpirci a tradimento alle spalle proprio in quei momenti in cui pensiamo che ci abbia concesso un po’ di tregua. Leggendo le mie parole, o Sire, spero che abbiate anche voi goduto – di quel piacere al tempo dolcissimo e amaro – delle reminiscenze di trenta anni fa. Ma vi chiedo ora, mio Re: sentite davvero reale, in cuor vostro, che sia trascorsa una simile infinità di giorni? Non sentite forse anche voi, come lo sento io, che ciò di cui vi ho parlato sia accaduto proprio ora, giusto prima di aprire questa lettera, in un istante indistinto ed inscindibile da questo?
Mio Re, come era bella Anna, ritta a fianco di suo padre. Ricordo precisamente la sua veste bianca, le borchie dorate che la fissavano sopra le spalle, e come cingessero il suo collo pallido e snello. Ricordo, come se ne avessi staccato lo sguardo giusto un minuto prima d’impugnare la penna, i suoi capelli, neri e scuri come la notte, e come la notte luccicanti, trafitti da dei bagliori che parevano quasi stelle. I suoi occhi scuri, dolci; le sue labbra rosse. Com’era slanciata e nobile, eppure così delicata e dolce nel suo sorriso.
Nella mia gioventù, fui ammaliato dalla sua bellezza quanto lo foste voi: e che vergogna ne provai, ripetendo nella mente i miei voti. E voi, mio sire, eravate altrettanto bello: giovane e robusto, col viso liscio, disturbato solo da una curata e leggera barba scura, i capelli voluminosi, né lunghi, né corti, rigidamente pettinati all’indietro. Ricordo la vostra schiena ampia, che, essendo inchinato poco più di un metro dietro di voi, vedevo bene. Ricordo quasi come la cornice d’un quadro, la vostra uniforme e le sue spalline dorate, la fierezza di un principe forte di una nobile arroganza – che da giovani solo è virtù e non vizio – pronto a sconvolgere il mondo con il suo valore.
Oggi, mio dolce amico, la bella Anna non è più qui, e noi siamo canuti, grigi, curvi. Secca è la nostra pelle, duro il nostro viso: le nostre membra faticano a fare ciò che allora era piacevole. Eppure come è possibile, mi chiedo, che in un simile stato i ricordi di quegli anni mi sembrino così veri, così vicini? Non siamo forse noi, quelli di allora, e non siamo forse noi, quelli di oggi? E non pare anche a voi, Sire, che non vi sia alcuna differenza? Non pare anche a voi, ogni giorno che trascorrete senza la vostra Anna, che nulla realmente sia cambiato dal giorno in cui io imposi le mani sui vostri capi, in cui vi unii inscindibilmente di fronte all’Eterno? E quale mai è il senso di questo assurdo stupore, di questo rifiuto invincibile ad accettare la realtà del tempo trascorso?
Noi non siamo mai stupiti dalla fame, non ci sentiamo mai meravigliati dalla sete, né ci appare incomprensibile la nostra solitudine o la nostra stanchezza: tutte queste cose, tutti questi bisogni, tutti questi disagi, ci sono vicini, conosciuti, ci appaiono normali – come fossero necessari e conseguenti al nostro essere corpo ed anima. Ma il tempo, il tempo non ci è mai familiare. Esso ci elude, non ci sentiamo mai realmente al suo interno, e ci sconvolge quando ci ricorda della sua presenza.
Il tempo ci è alieno. Ad esso non possiamo mai abituarci. Ogni volta che lo misuriamo, che giudichiamo le distanze tra un attimo ed un epoca ne siamo sorpresi o stravolti: una vita ci appare un secondo, ed un secondo ci sembra interminabile. Di questo sono fortemente convinto: che noi non siamo del Tempo. Come lui non appartiene a noi, noi non apparteniamo a lui.
Sire, vi racconterò un altro aneddoto sulla mia giornata. Oggi, per una sera, ho mancato di curarmi delle mie obbligazioni. Preso congedo da Re Zeno ed il Patriarca, ho rifiutato, dissimulando un lieve malessere, l’invito ad unirmi al Patriarca per il pranzo. E questo è peccato, poiché ho mentito, e trovo allo stesso tempo amaro e comico trovarmi oggi nella stessa situazione di trent’anni fa, quando cedemmo al medesimo vizio e nacque la nostra amicizia. Ma il mio cuore oggi mi chiamava altrove, e non sono stato capace di resistergli. Così ho congedato i miei uomini per il giorno, e mi son diretto verso la mia meta.
Il santuario più grande di Agata è proprio il santuario del Tempo, e consapevole di questo, coi pensieri che vi ho descritto nella mente, lì mi son dovuto recare. Si tratta di un edificio molto particolare: una unica volta, a pianta circolare, sorretta da sedici alte colonne. Non vi è muratura, oltre le colonne stesse, che separi l’interno dall’esterno, e l’aria e la luce entrano liberamente sotto la grande volta. Non vi sono arredi: solo un vasto pavimento marmoreo intarsiato, e al centro, un braciere che non cessa mai di ardere, il simbolo della Sacra Fiamma. È da qui che vi scrivo, mentre il sole si accinge a morire. Ho voluto trascorrere del tempo in questo luogo, in compagnia del primo Re Zeno, oggi tramutato in un rilievo sul marmo. I re di Agata, tutti, riposano seppelliti sotto il pavimento di questo santuario.
Anche per noi, mio Re, il tempo giungerà al termine; e come oggi ci pare non sia trascorso che un istante da quando eravamo ragazzi, così ci sembrerà allora, chiudendo i nostri occhi, che non siano passati che pochi atti dal nostro primo vagito. Così può apparire la vita umana, un battito d’ali, una nuvola di polvere che il vento alza per un istante, solo perché ricada a terra; una folgore, che se pure squarcia il cielo con maestà e potenza tali da scuotere il mondo intero, l’istante successivo è già scomparsa, e per sempre obliata.
Chi non percepisce il dramma di questa sconfitta, non è che uno stolto. I piaceri e le distrazioni, le preoccupazioni mondane e vacue, queste cose possono forse sopire la consapevolezza di un uomo, ma ciò non cambia la inevitabilità del suo fato, la crudeltà di questo oblio da cui non è possibile fuggire. Eppure amico mio, noi non dobbiamo in alcun modo temere la fine del nostro tempo.
Perché questo senso di incredulità di fronte al tempo, questa incapacità di accettare e comprendere la finitudine, non sono un errore nello sviluppo del nostro corpo, un difetto della nostra psiche, ma piuttosto testimoni della nostra vera natura. Non è realmente al pavimento di questo tempio, infatti, che sono andati i Signori di Ilion: ma bensì alla Fiamma. Il marmo muta, decorandosi di nuove membra scolpite ogni sessanta o settant’anni, e infine sarà anch’esso sgretolato e dimenticato: ma vi è Fuoco sempre uguale a sé stesso, che ardeva prima del Tempo e arderà quando il tempo stesso sarà cessato. Esso, e non la terra, è la nostra ultima casa.
È questa la ragione per cui non capiamo il tempo, mio Signore. Perché qui siamo come un pesce al secco. La nostra natura non è nel passare delle epoche, nel perdersi dei momenti, bensì nell’unico momento, nell’epoca senza fine. Lì torneremo, finalmente liberati dallo scorrere dei mesi, nel cuore dell’Eternità che il nostro Signore ha preparato per noi, lì dove la fiamma veramente non cessa mai di ardere.
Mio amato amico, io oggi vi ho scritto, forse acuendo il dolore che incessantemente provate, forse lenendolo; non sono in grado di valutare che effetto abbiano le mie parole, e vi chiedo perdono per ciò che è forse un atto di egoismo. Non ho però potuto tenere a freno il desiderio di scrivervi, e spero che in qualche modo queste righe vi smuovano, se mai fosse possibile dopo dodici anni di silenzio.
Dalla morte della regina voi non siete più stato lo stesso. Malapena avete proferito parola, e non so nemmeno se leggerete questa lettera. Né le parole mie, né dei vostri figli, né dei ministri, vi hanno mai liberato dal vostro dolore; e neppure il tempo stesso ha sortito effetto. So bene che anche queste righe faticheranno ad esservi d’aiuto.
Eppure ho dovuto scriverle, perché qui ad Agata, oggi, ho rivisto voi da giovane; ho rivisto la bella Anna, e persino me stesso. Credete, mio Re, che la vostra regina è ancora qui dove la avete conosciuta, e qui siete anche voi, la vostra forza, la vostra giovinezza. Tutto ciò non è mai passato, non è mai sparito: solo, il tempo vi ha posto nella posizione di non vedere questo, di non percepirlo immediatamente innanzi a voi.
Ma il tempo, amico mio, passerà; noi, invece, nell’Amore di colui che ci ha dato la vita eterna, rimarremo.
Con amore profondo,
Martinius Wyss.
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